Alzi la mano chi, fra voi, ricorda un solo discorso pronunciato dal Capo dello Stato alla vigilia di Capodanno. Anzi, alzi la mano chi ne ricorda solo un passaggio, un concetto, uno scatto degno di restare impresso nella memoria dei cittadini (beh, forse qualcosina di Scalfaro, o ancor prima Cossiga). Spesso, per non dire sempre, tutto si riduce ad un esercizio di stile, a vuota retorica condita dall'immancabile paternalismo borghese. E le parole chiave sono tutto sommato sempre le stesse: speranza, ottimismo, fiducia, responsabilità, stabilità.
Ecco, quest'anno Giorgio Napolitano ha l'occasione di cambiare le cose. Ha la possibilità di essere ricordato e di ricucire il rapporto con i tanti italiani delusi, sfiduciati, avviliti, incazzati, depressi che sostanzialmente non credono più in questo Paese. E che probabilmente restano qui solo perché non possono fare altrimenti.
Non gli servirebbe nemmeno molto, in realtà. Basterebbe riprendere gli appunti dello scorso aprile, quelli del discorso di insediamento, quando umiliò i politici, mettendoli di fronte alle loro responsabilità e mostrando cosa davvero significa "umanamente" il servizio al Paese. Quel giorno il vecchio e stanco Presidente, nel prestarsi (non ci interessa ora la dietrologia) al gioco al massacro di politici interessati solo alla loro stretta sopravvivenza e ben sapendo di andare incontro ad una marea di critiche e contestazioni, non ebbe remore e fece ciò che da tempo andava fatto: disse al Paese chi erano i responsabili dello sfascio, mise ognuno di fronte alle proprie responsabilità, dichiarò pubblicamente che quello era l'ultimo appello e che non potevamo attendere oltre. E non cercò facili vie di fuga nei formalismi:
"Quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità […] Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti – che si sono intrecciate con un'acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale – non si sono date soluzioni soddisfacenti. Hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi. Ecco che cosa ha condannato alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento. […] l'insoddisfazione e la protesta verso la politica, i partiti, il Parlamento, sono state con facilità (ma anche con molta leggerezza) alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie, da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono".
Ecco, nella considerazione del mutamento solo superficiale prodotto in questi mesi, con strategismi e tatticismi che, per stessa ammissione degli attori politici, rischiano di paralizzare anche il Governo (dopo aver ridotto il Parlamento a mero organo di ratifica), a questo passaggio probabilmente il Presidente dovrebbe aggiungere una ulteriore postilla: le scuse agli italiani. Certo, il nostro Presidente dovrebbe scusarsi e rendere conto anche e soprattutto di colpe non sue. Perché è lui che rappresenta il Paese a tutti i livelli ed è lui chiamato a doversi far carico del fardello delle responsabilità, degli errori, delle omissioni. Insomma, non vuota retorica, non generici inviti all'ottimismo, non parole di speranza, ma scuse, chiarezza delle responsabilità e verità nel linguaggio.
Le scuse per una politica rissosa, inconcludente e confusionaria. Per una discussione parlamentare che spesso assume risvolti farseschi. Per i tentennamenti del Governo delle larghe intese, morto di tattica. E per gli errori dell'esecutivo più cerchiobottista della storia repubblicana. Per le troppe omissioni sulle responsabilità della crisi. E per gli errori nelle cure adottate. Per l'incapacità di fermare l'emorragia della disoccupazione, cui si è risposto con palliativi e placebo. Per la disillusione degli italiani nella politica, per la sfiducia nelle istituzioni. Per la demagogia ed il populismo (sì, anche per questo). Per lo scadere del dibattito, per gli insulti che risuonano quotidianamente nelle sedi istituzionali, per le vergognose sceneggiate cui ci tocca assistere. Per i tanti dubbi che sorgono quando di fronte alle proteste dei cittadini si risponde in modo diverso a seconda della "matrice". Per le crepe nel muro della decenza, anche ad alti livelli istituzionali (Shalabayeva, Cancellieri, Stamina). Per l'odio che cresce nel Paese, per gli steccati che vengono nuovamente alzati, per il clima da caccia alle streghe. Per la guerra fra poveri che lacera le coscienze e corrompe gli animi di chi vive la crisi sulla propria pelle. Per la disperazione e la rabbia, troppo spesso strumentalizzate a meri fini di consenso.
Ecco, Napolitano chieda scusa di questo ed altro. Anche, anzi soprattutto perché non è colpa sua. Mostri di aver capito il disagio che vive il Paese e di essere in quei luoghi da cui pure proviene. Torni ad essere il nostro Presidente, lontano dalle stanze del potere e vicino idealmente, moralmente e concretamente vicino al suo popolo. Che mai come adesso ha bisogno di un punto di riferimento. Assuma insomma su di se il compito più arduo: parli il linguaggio della verità, si liberi dal paradossale assillo della responsabilità e per una volta, una sola, ci dica di chi sono le responsabilità. Unisca il Paese in poche parole: abbiamo sbagliato, è il momento di ricominciare. E cambiare.