La crisi di governo aperta dalla decisione del Movimento 5 stelle di non votare la fiducia al governo sul decreto Aiuti è ancora lontana dall’essere conclusa. Come noto, la principale incognita è costituita dalle intenzioni del Presidente del Consiglio dimissionario Mario Draghi, atteso mercoledì in Parlamento per un dibattito che sarà seguito da un voto di fiducia. È il percorso disegnato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale, nel respingere le dimissioni di Draghi, ha optato per la parlamentarizzazione della crisi, in modo da consentire una verifica chiara e rapida.
Qualche certezza, per la verità, già l’abbiamo. Conviene metterle in fila, come base preliminare dell’analisi sui possibili scenari futuri.
In primo luogo, va detto che Mario Draghi può contare su un’ampia maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, con un margine di sicurezza finanche superiore a quello di cui hanno goduto i governi precedenti. Ciò, al netto di come deciderà di muoversi il Movimento 5 stelle, o parte di esso. Per la sua permanenza a Chigi sono schierati gli altri leader della maggioranza, in conformità con le scelte strategiche operate negli ultimi mesi. L’ex numero uno della Banca Centrale Europea gode del supporto incondizionato del Quirinale, delle cancellerie europee e dei partner internazionali. Simile l’orientamento dei rappresentanti del mondo produttivo, delle professioni e finanche degli ordini professionali e dell’associazionismo. Si sono mossi anche i Sindaci, con una petizione che ha raccolto oltre mille adesioni. Si sono esposte le gerarchie ecclesiastiche. La stragrande maggioranza degli opinionisti e dei commentatori politici, per la verità dei media in generale, vuole mantenerlo a Palazzo Chigi. Gli stessi sondaggi non sono inclementi, sembra prevalere una certa contrarietà dei cittadini rispetto all’apertura di una crisi in questo momento. Per tagliare corto: a favore di Draghi c’è stata un’enorme mobilitazione di decisori e attori politici, nonché di gruppi di interesse e di soggetti con enorme peso. Tutti cementati da una narrazione emergenziale che suona tipo: "L'Italia non può permettersi di perdere Mario Draghi in questo momento".
In questo clima, è pensabile che Draghi scelga di confermare le proprie dimissioni?
Perché Draghi non ha ancora ritirato le dimissioni, quindi
Tutti i retroscenisti descrivono Draghi come molto ostinato e deciso a non ritirare le dimissioni. C'è grande preoccupazione nei Palazzi, soprattutto al Quirinale, al punto che si sta già cominciando a preparare il piano B. Alcuni leader di primissimo piano hanno provato senza successo a mediare, scontrandosi con la rigidità del Presidente del Consiglio e le perplessità di alcuni suoi consiglieri.
Una rigidità che, a parere di chi scrive, è pienamente comprensibile, almeno in questa fase. Draghi aveva solide ragioni per rassegnare le dimissioni dopo quanto accaduto al Senato sul decreto Aiuti; evidentemente si trattava di prendere atto del mutato quadro politico e del venir meno delle basi che avevano portato al governo delle larghissime intese. Fin dal primo istante, non ha mai inteso porsi a capo né di un raggruppamento politico, né men che meno di un accrocchio disomogeneo utile solo a rinviare il ritorno alle urne. Ha sempre cercato di non farsi tirare per la giacchetta o di scendere nel dibattito tra i partiti.
Nella sua idea, si trattava di guidare un esecutivo di responsabilità, nato in una fase emergenziale e con un preciso compito politico e strategico: gestire la ricostruzione del Paese nel post pandemia, metterne in sicurezza i conti e portare a compimento riforme strutturali da tempo in sospeso. La recrudescenza della pandemia, la crisi internazionale e la prospettiva di un autunno difficilissimo, in tale ottica, avrebbero dovuto portare le forze politiche a un comportamento di maggiore responsabilità e a un rafforzamento dell’esecutivo. Invece, ragiona Draghi, la scelta è stata di tutt’altro senso: il mal di pancia è diventato malcontento esplicito, sono state messe in discussione scelte centrali (la questione armi all’Ucraina, ad esempio), il governo è stato spesso usato come un punching-ball da esponenti della maggioranza. Fino al punto che una forza politica è addirittura riuscita nell’impresa di votare contro la fiducia a un governo di cui fa parte, senza ritenere di dover immediatamente uscire dalla maggioranza.
Nella versione del fronte draghiano la responsabilità principale è del Movimento 5 stelle, ma il problema politico è finanche più ampio. È la ragione principale per la quale Draghi non vuol sentir parlare di un'altra maggioranza alle stesse condizioni: non vuole in alcun modo trovarsi costretto a subire lo stesso schema, in cui magari tocchi a Salvini fare la parte di Conte. Rimpasto, cambio di maggioranza e conseguente rimescolamento del quadro politico (con rottura asse Pd-M5s e accelerazione del progetto grande casa dei moderati) sono tutte scelte di cui Draghi non vuole intestarsi la paternità. Lui si sente un civil servant, non dimentica di essere stato chiamato in un determinato contesto, per determinate ragioni e a determinate condizioni. Ora che tutto è cambiato, ritiene necessario ridiscutere tutto.
Anche perché, ci spiace dare questa notizia al suo fan club, Draghi non ha alcun interesse a trasformarsi in un politico tradizionale, men che meno in un uomo di parte. C'è un'area politica che lo ha eletto a leader, disegnando per lui un percorso e una collocazione politica. Addirittura si è parlato del "partito di Draghi", senza che dal suo entourage sia mai filtrata neanche una disponibilità di massima. Per tagliare corto: il Presidente del Consiglio non ha mai manifestato la volontà di porsi a capo di un ipotetico schieramento dei migliori, rifuggendo anche esplicitamente l'idea di un nuovo bipolarismo competenti vs populisti.
Accettare di guidare un governo senza 5 Stelle e con Salvini pronto a staccarsi in qualunque momento, significherebbe non potersi tirare indietro fra pochi mesi, quando il Paese dovrà decidere da che parte andare.
Le ragioni personali di Mario Draghi
Non è un mistero che a Draghi fosse stato prospettato un 2022 di altro tipo, comodamente seduto al Quirinale a guidare la transizione del Paese verso nuove elezioni. Un progetto fallito prima di tutto a causa dell’opposizione di Giuseppe Conte e degli errori dei suoi fedelissimi, che hanno gestito con superficialità e arroganza alcuni snodi cruciali delle trattative. I giorni che hanno portato alla rielezione di Mattarella hanno segnato il destino di questa legislatura e della maggioranza. I draghiani hanno preso in mano le redini del governo, marginalizzando i grillini e i leghisti più baldanzosi. È nato un governo nel governo, un gruppetto cui si sono accodati autorevoli esponenti del centrodestra e, ovviamente, Luigi Di Maio (il cui strappo con il M5s sarebbe stato impensabile senza le garanzie di Chigi e del Colle).
Con la condiscendenza di alcuni leader e nella logica emergenziale, si è mostrato un certo fastidio per le dinamiche parlamentari e politiche in senso lato. Al compromesso si è preferito lo strappo, la fuga in avanti, secondo una prassi in voga da anni ed esacerbata dall'assenza di una reale alternativa, sentimento che ha dominato il dibattito pubblico italiano.
A distanza di mesi, Draghi potrebbe mai accettare un ultimatum da quello che considera il suo principale nemico? Potrebbe invertire così bruscamente la rotta del governo solo per cedere a quello che considera un vero e proprio ricatto di Conte? Il giochino, insomma, si è rotto definitivamente e Draghi non può che prenderne atto.
Non è solo una questione di orgoglio, ma anche di sostanza. Perché i partiti hanno reagito al mutato quadro politico proponendogli dei trucchetti, degli accorgimenti da vecchia politica. Una nuova scissione nei 5 Stelle in modo da salvare le apparenze e far sembrare che la mission originaria del suo governo sia stata rispettata, ad esempio. Un cronoprogramma intorno al quale impostare i prossimi mesi, in alternativa. O addirittura, una versione riveduta e corretta dei “pieni poteri” di sapore salviniano (sì, è la soluzione preferita dai centristi). Iniziative che finiscono per gettare una luce negativa sullo stesso Draghi, che invece è pienamente consapevole dell’eccezionalità della situazione e della responsabilità cui viene richiamato. Dagli eventi, più che dalla politica.
Dovrebbe essere piuttosto chiaro: il Presidente si sente un uomo delle istituzioni, non un politico da blandire con incarichi o promesse. E poiché la legittimazione gli è stata conferita da un patto fra le forze politiche, non dai cittadini, è necessario che sia rimesso tutto in discussione nelle sedi opportune.
Con una consapevolezza, aggiungerei: chi racconta questa fase come "o Draghi o il diluvio", non fa solo un torto al Paese, ma anche allo stesso Draghi.