Fuori dai ballottaggi nei 4 capoluoghi di Regione, percentuali risibili nelle altre sfide importanti (Padova, Verona), sconfitte nette nei comuni simbolo della prima “ondata grillina” (Parma e Mira). Nel valutare il bilancio delle Elezioni Comunali 2017 per il MoVimento 5 Stelle è difficile non parlare di flop, di batosta, di crollo. Pesano, in particolare, i flop di Parma e Genova, che arrivano per mano dell'ex figlioccio Pizzarotti e dello stesso Grillo, padre – padrone di casa.
Grillo invece ha parlato di “crescita lenta, ma inesorabile”, avvertendo i partiti tradizionali come non sia il caso di illudersi e stilando la road map del Movimento 5 Stelle: salvare il salvabile ai ballottaggi, provare a fare della Sicilia la “prima Regione a 5 Stelle” e, infine, le politiche, con l’obiettivo di andare al Governo. Una lettura diversa da quella fatta nel post Europee 2014, quando ammise la sconfitta e con ironia confessò di aver preso del Maalox dopo aver visto le percentuali a favore di Renzi. L’uscita di Grillo ha ricordato la celebre dichiarazione del socialdemocratico Filippo Caria che, dopo una elezione non proprio felicissima per il suo partito, commentò di fronte alla direzione del partito: “Compagni, alle elezioni provinciali di Caserta il Psdi è passato da due a tre consiglieri: la socialdemocrazia avanza e conquista il mondo”.
Un crollo del genere sembra stonare col battage mediatico delle ultime settimane sulla crescita dirompente del MoVimento, sul 30 – 35 percento dei consensi, sull’onda inarrestabile che avrebbe potuto portare i grillini al Governo, legge elettorale permettendo. Ma attenzione, perché i sondaggi nazionali continuano a dare ampie garanzie a Grillo e ai suoi fedelissimi.
E allora qualcosa deve essere andata storta, evidentemente. E da tempo. Tant'è che era parso finanche strano il modo in cui Grillo si era speso negli ultimi giorni di campagna elettorale, quasi a voler recuperare il possibile e mettere pezze a errori piuttosto grossolani.
A cominciare dalla gestione rivedibilissima di alcuni casi (più Parma che Genova e Palermo, per la verità) da parte dei vertici del MoVimento. Oltre agli interventi diretti dello staff di Grillo, con le revoche del contrassegno, la cancellazione dei risultati delle primarie e, prima ancora, dello strappo con Pizzarotti, è evidente che sia mancato qualcosa a livello di coordinamento fra (ciò che resta dei) meetup, attivisti non inquadrati, candidati e struttura del MoVimento. È invece ancora da capire quanto ciò possa danneggiare Luigi Di Maio, già coordinatore degli Enti Locali (sul reale peso del direttorio la discussione sarebbe lunga), nella sua corsa alla candidatura alla Presidenza del Consiglio.
Sul processo di selezione / costruzione delle candidature si è giocata una partita interessante, che è interessante nella misura in cui si è trattato delle prove generali per le prossime politiche. Il MoVimento, qualunque sia la prossima legge elettorale, è intenzionato a scegliere i parlamentari con consultazioni primarie che coinvolgano gli iscritti tramite voto online; una prassi che, come si è visto in più di un caso, rischia di essere più divisiva che costruttiva, favorendo la nascita di gruppetti e correnti, non sempre "fedeli alla linea" in caso di sconfitte. Una grana non di poco conto, che, come si è visto, non si può pensare di risolvere a colpi di editti dal blog.
Last but not least, c’è sempre il processo della formazione della classe dirigente, che procede a rilento e non sempre con gli esiti sperati. Rousseau, in tal senso, può aiutare, così come possono aiutare gli eventi e le mobilitazioni collettive, sui social network e non solo. Ma la sensazione è che quello della mancata riconoscibilità della figura del leader sul territorio sia un tratto costitutivo del MoVimento 5 Stelle, che rimanda alla tesi della non essenzialità del singolo e della subalternità dell’individualità al pensiero collettivo, allo spirito del MoVimento.
Detto ciò, l'entusiasmo con il quale in molti stanno celebrando il de profundis del MoVimento non ha alcun senso. In primo luogo perché c'è ancora da giocare il ritorno, con un turno di ballottaggio per il quale i voti dei 5 Stelle potrebbero risultare comunque decisivi. Poi perché mai come stavolta non sembra esserci correlazione fra i dati locali e nazionali, il sistema italiano resta "tripolare" e la geniale idea di accantonare il maggioritario rende difficilmente replicabile una situazione come quella di ieri alle politiche. Infine, perché nel progetto di Beppe Grillo la batosta di ieri è il male minore.
Lo è nella misura in cui l'obiettivo è da tempo uno e uno solo: le politiche (un obiettivo per cui scendere addirittura a patti con Berlusconi, Renzi e Salvini sulla legge elettorale!). Ecco, ora l'idea di replicare su larga scala gli inciampi dei primi mesi di gestione di Livorno o Roma, a ridosso della campagna elettorale per le politiche, non è che facesse impazzire di gioia Beppe Grillo. Una suggestione che, nella realpolitik grillina, si sposa con un altro concetto: meglio pochi e fedeli, che tanti e incontrollabili.
Insomma, Palazzo Chigi val bene una sconfitta, avranno pensato in tanti. Fra cui Grillo, probabilmente.
Lo si può notare da un piccolo particolare, che forse non tutti hanno colto nell'analisi del voto di ieri fatta da Grillo. Ecco, il capo politico del MoVimento 5 Stelle, forse per la prima volta, di fronte alla sconfitta non se la prende con gli italiani, non parla di elettori ignoranti o disinformati, non dà dei collusi o dei complici a migliaia di cittadini, non insulta nemmeno gli astenuti. Perché ha capito che è difficile recuperare consensi tra chi hai insultato (ogni riferimento alla rabbiosa campagna delle Europee è puramente casuale). Ma anche perché, in fondo, sa che di fronte all'abisso e alla paura gli italiani scelgono sempre la conservazione del sistema.