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Opinioni

Le macerie di una guerra chiamata “crisi economica”

In 6 anni persi 200 miliardi di reddito, la crescita delle retribuzioni è ai livelli del 1992, i disoccupati un milione in più di 4 anni fa, la disoccupazione giovanile è sempre intorno al 40%, i “poveri” sono circa 5 milioni: serve altro per capire come sta il Paese reale?
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Ne abbiamo scritto più volte: l'allarmismo non è una pratica che ci convince, soprattutto quando serve a mantenere in vita lo stesso sistema che si è dimostrato incapace di dare risposte e di gestire al meglio le conseguenze di una crisi economica che ha ben pochi precedenti per intensità e durata. E soprattutto perché  non ci vuole molto per valutare i danni a medio e lungo termine causati dalla "politica dell'emergenza", che sembra essere l'unica risposta che le classi dirigenti del paese sono in grado di dare. Infatti, sia in presenza di emergenze vere e proprie (ogni riferimento alla gestioni di terremoti, calamità naturali o crisi internazionali non è affatto casuale), sia per quel che concerne le emergenze costruite a tavolino (si pensi ad esempio alla questione immigrazione o a quella della "sicurezza"), la risposta è sostanzialmente la stessa: una serie di provvedimenti spot, gli inviti alla responsabilità e alla pacificazione sociale, il bombardamento mediatico che alimenta paura ed insicurezza all'interno dell'opinione pubblica. Un circolo vizioso al quale non si sottrae nemmeno la contromobilitazione: quella dell'indignazione indotta, del qualunquismo che spesso sfocia nel complottismo e della superficialità nell'analisi di cause e presunte soluzioni.

Il problema è che in questo vortice a sfuggirci sono i veri drammi che il Paese vive quotidianamente. E che spesso occupano un ruolo solo marginale nell'agenda politica e nella comunicazione dei media. Nelle ultime ore Istat, sindacati e Confindustria hanno diffuso dati (dati, non commenti, analisi, opinioni) per i quali l'aggettivo "allarmanti" suona finanche riduttivo: in 6 anni persi 200 miliardi di reddito, la crescita delle retribuzioni è ai livelli del 1992 ed è ferma su base mensile, mentre il numero di disoccupati è salito di oltre un milione (solo negli ultimi quattro anni) e la disoccupazione giovanile è sempre intorno al 40 percento, i "poveri" sono circa 5 milioni e le famiglie sono state costrette a tagliare i consumi per circa 5mila euro l'anno. La fotografia di un Paese distrutto, insomma, con "danni commisurabili a quelli di una guerra, che mettono a rischio la tenuta sociale". Poi, ma questo lo scriviamo per inciso, resta sempre il mistero della distribuzione del reddito: dall'inizio della crisi ad oggi, non vi sono state variazioni significative nelle zone apicali della concentrazione reddituale. Come a dire, se cercate chi ha pagato la crisi, vi converrà guardare più in basso.

Di fronte a questa situazione, nell'attesa che qualcuno si interroghi sulle reali responsabilità della politica e delle istituzioni (o anche delle parti sociali) nel corso di questi anni, la considerazione comune è che sia "necessario fare qualcosa e in fretta". Come poi questo si traduca in spot, propaganda e brodini caldi questo è un altro mistero tutto italiano. Per averne un'idea basta considerare quelli che sono i due principali provvedimenti del Governo Letta, quelli dai quali era lecito attendersi risposte concrete e più o meno immediate: il decreto lavoro e la legge di stabilità. Al netto delle polemiche sui singoli provvedimenti (il bonus giovani, ad esempio, con il trionfalismo usato per le 14mila assunzioni nel mese di ottobre; oppure la questione dei 14 euro in busta paga, oggetto di una strumentalizzazione insensata da parte della stessa opposizione), la lettura più disarmante è quella fornita dalle risorse messe in campo: 800 milioni di euro su più anni per il decreto lavoro, meno di 1,5 miliardi per il taglio del cuneo fiscale, 120 milioni in tre anni come aggiunta ai 250 milioni di euro del Fondo per la povertà. E si potrebbe continuare a lungo, magari comparando tali dati con i costi delle cambiali elettorali (dell'Imu abbiamo scritto finanche troppo, del mezzo regalo ai "signori delle slot" pure), dei provvedimenti spot, degli sprechi e delle "sofferte rinunce" (tassazione delle rendite finanziarie, riduzione delle spese militari, riorganizzazione delle province eccetera). Ma del resto, la prassi sembra essere sempre la stessa: un brodino caldo contro il cancro e una overdose di farmaci per il raffreddore.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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