La situazione a Gaza si aggrava ogni minuto di più, a maggior ragione dopo l’esplosione all’ospedale Al Ahli al arabi che avrebbe causato almeno 500 morti. Al momento è difficile fare previsioni su cosa succederà nei prossimi giorni o addirittura nelle prossime ore, ma una cosa è chiara: siamo di fronte a una crisi umanitaria senza precedenti nella storia recente e, come sempre accade, saranno i soggetti più vulnerabili a pagare il prezzo più alto.
Nei giorni scorsi l’UNFPA, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, aveva lanciato l’allarme sulle conseguenze che subiranno le donne nel conflitto, specialmente quelle incinte. Attualmente in tutto il territorio palestinese ci sono 123mila donne in attesa di un figlio, di cui 13.649 partoriranno entro la fine del mese. 50mila donne incinte vivono nella striscia di Gaza e per loro spostarsi costituirebbe un grande rischio per la salute. La situazione sanitaria è fuori controllo: già prima dell’escalation a Gaza mancava il 48% del materiale sanitario essenziale, fra cui 20 apparecchi indispensabili per le cure materne e neonatali. L’OMS al 13 ottobre aveva conteggiato almeno 37 attacchi a strutture ospedaliere e ambulanze che hanno causato la morte di medici e infermieri, oltre che di pazienti, a cui va aggiunto il devastante attacco del 17 ottobre.
Il rischio però non è soltanto di tipo sanitario. L’aumento dei tassi della violenza di genere è infatti una delle conseguenze più comuni nei momenti di guerra e di crisi umanitaria. In Palestina la situazione è da sempre problematica: nel 2019, quasi il 60% delle donne sposate aveva subìto una qualche forma di violenza di genere. I dati sono incompleti, anche a causa della reticenza delle donne ad affrontare l’argomento o a riconoscere come tali gli episodi di abuso. È stato ampiamente dimostrato come la violenza di genere si esacerbi nei luoghi di conflitto, problema a cui si aggiungono la mancanza di cure mediche, di assistenza psicologica o di luoghi sicuri in cui rifugiarsi. Già durante la crisi del 2021, durante gli sgomberi del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est da parte dei coloni israeliani, l’UNFPA aveva registrato un’escalation della violenza di genere, che viene considerato “uno dei problemi più seri e complessi che le donne palestinesi devono affrontare”. La violenza aumenta nei confronti delle donne con disabilità, molte delle quali sono rimaste ferite durante gli scontri e i bombardamenti.
In previsione di un’eventuale invasione di terra, il rischio è anche quello degli stupri di guerra. In generale, è diffusa l’idea che a confronto con altri conflitti, i soldati israeliani non abbiano mai fatto un utilizzo sistemico dello stupro come arma di guerra, anche se sono diversi gli episodi di violenze sessuali registrati nel corso degli anni, specie in situazioni di vulnerabilità come gli interrogatori, le visite in carcere o ai checkpoint. Come fa però notare il ricercatore Revital Madar, specializzato nel conflitto israelo-palestinese, la nozione di “stupro di guerra” è inadeguata nel contesto del regime di sopraffazione che Israele ha inflitto sulla Palestina a partire dal 1948. Qualsiasi dato è poi viziato dalla ancor maggiore difficoltà delle vittime a rivolgersi ai centri antiviolenza, dall’enorme sproporzione di potere tra israeliani e palestinesi e dalla mancanza di un quadro normativo di riferimento, che di fatto crea un clima di impunità. Tuttavia, se l’invasione di terra dovesse concretizzarsi, ci troveremmo di fronte a uno scenario inedito e dalle conseguenze imprevedibili.
La violenza di genere nei luoghi di conflitto è stata condannata dalla risoluzione dell’ONU 1820 del 2008, la prima a riconoscere in maniera esplicita la portata del fenomeno. Nella risoluzione non solo si condanna lo stupro perpetrato da soldati contro civili come tattica di guerra (considerato un crimine contro l’umanità), ma si sottolinea come i conflitti aumentino i tassi di violenza, annullino i meccanismi di protezione delle vittime e favoriscano la proliferazione di luoghi ad alto rischio, come i campi profughi. In questo momento gli sforzi dovrebbero concentrarsi sulla protezione dei civili, sullo stop ai bombardamenti indiscriminati da parte di Israele e sull’invio di aiuti umanitari, per aiutare la popolazione e ancor più in particolare i soggetti fragili, come le donne, i bambini e gli anziani.
La situazione di Gaza purtroppo non è nuova, ma per molti aspetti è unica nel suo genere, perché oltre al conflitto attuale, già subiva le conseguenze dell’occupazione decennale di Israele, in una situazione di estrema deprivazione materiale che colpisce in primo luogo le donne, le bambine e le ragazze. Nel libro del 1974 Contro la nostra volontà, la femminista Susan Brownmiller riconduceva lo stupro di guerra alla progressiva sparizione delle donne dalla scena pubblica.
Escluso dalle decisioni politiche e militari, nascosto alla vista altrui, il corpo delle donne diventa un terreno contro cui è possibile fare qualunque cosa senza subire alcuna conseguenza. In altre parole, è l’invisibilizzazione delle donne che favorisce il dilagare della violenza nei loro confronti. E le donne che vivono a Gaza e nel West Bank ne vivono una duplice: in quanto donne e in quanto palestinesi.