Dopo la controversa riforma delle pensioni, inserita tra le altre cose in una manovra la cui gestazione ha destato non poche perplessità, sono in molti a credere che il vero banco di prova del Governo guidato da Mario Monti sia la riforma del mondo del lavoro. A disegnare il quadro normativo sarà ancora una volta Elsa Fornero, 63enne Ministro del welfare, già al centro di una ridda di polemiche per le sue scelte in materia pensionistica (indirizzi tra l'altro attenuati dopo i passaggi parlamentari). I tempi sembrano essere piuttosto stretti e, con ogni probabilità, i primi giorni del 2012 vedranno l'esecutivo al lavoro su un progetto di riforma (peraltro già anticipato in alcuni passaggi del lavoro accademico della Fornero) che certamente non mancherà di far discutere. Sul tavolo, come confermato nella recente intervista al Corsera, l'assetto complessivo del mercato del lavoro e l'intenzione di procedere ad una discussione "intellettualmente onesta ed aperta" anche sul "totem dell'articolo 18".
Perché cambiare l'articolo 18?
La revisione (se non la cancellazione) dell'articolo 18 è una battaglia che i governi di differente colore politico portano avanti da oltre un decennio. Il suddetto articolo dello Statuto dei lavoratori, giova ricordarlo, affronta la disciplina dei licenziamenti, stabilendo che un licenziamento è valido solo se avviene per giusta causa. Va detto che simile tutela è in vigore nelle aziende con oltre 15 dipendenti, mentre nelle restanti il datore di lavoro può respingere una sentenza di reintegro pagando al lavoratore un indennizzo (il tentativo di estendere, attraverso un referendum, tale tutela anche alle piccole aziende fallì miseramente nel giugno del 2003).
Da anni ormai analisti e tecnici sostengono che una modifica sostanziale di tale norma potrebbe contribuire alla crescita economica delle aziende e ridare slancio all'economia dell'intero Paese. La logica è abbastanza semplice e peraltro condivisa trasversalmente (con rilevanti eccezioni) dalle forze politiche: la rapidità dei cambiamenti del mercato e la necessità di garantire efficienza nel comparto produttivo richiedono una maggiore flessibilità del mercato del lavoro; sia per quel che riguarda la "professionalità" dei lavoratori, sia per quanto riguarda il bisogno di "trasferire una parte del rischio di impresa dall’imprenditore ai lavoratori" (come scrive Gilioli nel suo blog). Un esempio in tal senso è il progetto di modifica ideato dal senatore del Partito Democratico Pietro Ichino, il quale immagina un "un contratto unico di lavoro come forma di inserimento (a tempo indeterminato) ma con protezioni crescenti per il lavoratore", con l'articolo 18 che resterebbe in vigore solo per i licenziamenti dovuti a provvedimenti disciplinari ingiustificati (un lavoratore potrebbe dunque essere licenziato per motivazioni di ordine "tecnico o economico", ottenendo solo un indennizzo minimo e il trattamento di disoccupazione).
Simile anche la posizione del mondo dell'impresa, con la Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia che solo pochi giorni fa ha parlato di una riforma del lavoro da affrontare "con serietà e pragmatismo, anche in considerazione del fatto che abbiamo delle rigidità in uscita che non hanno uguali in Europa". La strategia è dunque abbastanza evidente (e in parte già studiata a tavolino, con l'indiretta "complicità" delle istituzioni europee): mettere sul piatto della bilancia, in tempo di stringente crisi economica, da una parte la rinuncia al vincolo dell'articolo 18 e dall'altra una "copertura fatta di ammortizzatori sociali e forme di mediazione settoriale".
L'articolo 18 non si tocca
E dunque? L'offensiva del Governo, spalleggiata da Confindustria e dalle istituzioni europee (si ricorderà un punto centrale della lettera inviata a Tremonti e Berlusconi), rischia di trasformarsi davvero in quella che lo stesso Gilioli immagina con grande efficacia come "la grande slavina" dell'articolo 18? E che valore ha la difesa a spada tratta di una tale forma di tutela dei diritti dei lavoratori? In tal senso la posizione dei sindacati è chiarissima, come ha esplicitato senza mezzi termini Susanna Camusso: "L'art. 18 è una norma di civiltà che dice che nessun imprenditore e nessun datore di lavoro può licenziare un lavoratore perché gli sta antipatico, perché ha un'opinione, o fa politica oppure fa il rappresentante sindacale".
Un limite invalicabile, dunque, sul quale sembra esserci ben poco margine di trattativa. Un cammino in salita anche per quel che riguarda la riorganizzazione del mondo del lavoro, con i sindacati pronti, per citare Raffaele Bonanni della Cisl, a "sfidare il Governo sul lavoro flessibile, che deve costare di più". Ed è questo, in effetti, un altro fronte caldissimo, con pareri contrastanti anche da parte di stimati esperti di settore. Se da una parte c'è chi sottolinea come a fronte di minori tutele sia necessario "trasferire sui lavoratori una parte più consistente di profitti", dall'altra sono in molti a ritenere tale strada del tutto impraticabile. Il meccanismo in effetti rischia di essere controproducente, dal momento che, come ricordava un pezzo di qualche mese fa di Marco Simoni, sul Post:
"se si aumentano le tasse sul lavoro precario, l’unico effetto sarà quello di far diminuire lo stipendio netto di questi lavoratori […] Poniamo che un ente pubblico possa assumere un bel precario per sei mesi. Questo precario guadagnerebbe 1000 euro al mese al netto delle tasse. Se le tasse aumentano lo stipendio cala perché, dato che il lavoratore è sotto ricatto, gli verranno semplicemente offerti 900 euro anziché 1000, perché bisogna pagare più tasse".
E allora, c'è spazio per un modello che tenga insieme riforma del mercato del lavoro e tutela dei diritti dei lavoratori senza penalizzare nè la crescita economica nè la stabilità di centinaia di migliaia di famiglie italiane? Ecco, è questa in effetti la vera sfida di un Governo perennemente in bilico fra la ricerca del rigore e dell'equità e la tendenza alla mediazione necessaria per ottenere il beneplacito parlamentare. Una sfida che potrà essere vinta solo se il ministro Fornero, nei cui studi peraltro non è difficile rinvenire riferimenti al lavoro di Ichino (un segnale che specialmente a sinistra dovrebbe essere tenuto nella massima considerazione), riuscirà a dar vita ad un disegno di ampio respiro in grado di armonizzare spinte e "bisogni" in qualche modo divergenti. E la strada però non può essere quella del muro contro muro, del perseguimento del rigore a scapito dell'equità, dell'imposizione più che della condivisione, della riproposizione di dualismi ormai superati da tempo. Ed è anche piuttosto chiaro che l'esordio in tal senso non è stato dei migliori, con l'impostazione estremamente discutibile della manovra ed il pasticciaccio brutto su pensioni e liberalizzazioni: insomma, se questo è il tempo dei tecnici, è il momento di dimostrarlo.