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Le calciatrici saranno professioniste: e questo è solo l’inizio per lo sport italiano

La FIGC ha deciso: dalla stagione 2022/2023 le giocatrici non saranno più dilettanti. È il punto di arrivo di investimenti economici e scelte culturali per valorizzare il calcio femminile, ma anche un esempio per assicurare dignità e tutele ad atlete e atleti di altre discipline.
A cura di Roberta Covelli
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Il calcio femminile passa al professionismo. La notizia non è inaspettata: nel giugno 2020, il Consiglio della Figc aveva approvato all’unanimità il progetto, fissando la data di inizio del lavoro sportivo femminile a partire dalla stagione 2022/2023.

Da dilettanti a professioniste: le calciatrici sono le prime in Italia

Finora le calciatrici italiane erano tutte dilettanti, e dilettanti restano tutte le atlete azzurre, perfino quelle che arrivano alle Olimpiadi e vincono medaglie. La ragione è da ricercare nella mancata valorizzazione dello sport femminile, con l’assenza di interventi in materia: è un buco normativo, che passa dalla legge 91/1981 al CONI e alle singole federazioni sportive, libere o meno di aderire al professionismo, ma senza che la differenza tra professionismo e dilettantismo fosse mai stata chiarita. È infine arrivata la riforma Spadafora, con cinque decreti attuativi, la cui entrata in vigore non è ancora completa ed è stata tema di un braccio di ferro interno al governo. Al di là delle questioni politiche sottese, questa riforma ha finalmente introdotto una disciplina chiara per il lavoro sportivo, ponendo i presupposti per garantire (o almeno perseguire) la parità di genere. E non solo.

Non è solo questione di sport, ma di tutela del lavoro

Dilettante è chi svolge un’attività per piacere, professionista è chi, per l’attività svolta, riceve un compenso. Nello sport ad alti livelli, la differenza tra dilettanti e professionisti non è nel numero di allenamenti o nella preparazione richiesta, quanto nell’inquadramento lavorativo e quindi nelle tutele per gli atleti e le atlete. Una persona dilettante nello sport non può concludere un contratto di lavoro, autonomo o subordinato che sia, con la società presso cui è impegnata, deve muoversi insomma nel diritto commerciale, talvolta dovendo sottostare a tetti retributivi (è il caso del calcio dilettante, con massimo 30.658,00 euro lordi di retribuzione annuale secondo le norme federali), in altri casi affidandosi agli sponsor, e vedendosi privata di tutele contributive e previdenziali, che vanno dall’assenza di sicurezze in caso di infortuni alla mancata tutela per la maternità. Il caso di Lara Lugli, la pallavolista cui la squadra aveva rescisso il contratto dopo la comunicazione della sua gravidanza, non si sarebbe nemmeno posto se, invece che atleta dilettante, fosse stata una lavoratrice sportiva, una professionista.

Per le calciatrici, in realtà, il diritto a un pur minimo congedo di maternità è stato raggiunto grazie all’azione del sindacato FIFPro: dal 2021 le società dei campionati femminili riconosciuti dalla FIFA hanno dovuto garantire un minimo di quattordici settimane di congedo di maternità e un indennizzo pari ad almeno due terzi dei compensi previsti in precedenza. A questo si aggiungeranno ora le ulteriori tutele del lavoro sportivo, grazie al passaggio del calcio femminile al professionismo a partire dalla stagione 2022/2023, che non è che il culmine di un percorso di investimento nel settore.

La rottura del circolo vizioso attraverso investimenti economici e culturali

Sono passati solo sette anni da quando l’allora presidente della Lega Nazionale Dilettanti Belloli veniva inibito e sfiduciato per una dichiarazione omofobica e, soprattutto, sintomatica dello scarso rispetto e interesse per il settore del calcio femminile: "Basta, non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche", aveva sbottato.

Da allora, qualcosa è cambiato e, soprattutto, sembra finalmente esserci stata la volontà di spezzare il circolo vizioso sul calcio femminile, attraverso investimenti economici e scelte culturali. Una delle obiezioni tipiche, sottesa probabilmente anche alla vergognosa dichiarazione di Belloli dell’epoca, attribuisce infatti alle dinamiche del mercato la differenza di trattamento tra uomini e donne: il calcio femminile interessa di meno, attira meno tifosi e meno spettatori paganti, quindi meno sponsor, dunque meno soldi, insomma, sarebbe naturale pagare di meno le donne. Nel contempo, però, l’assenza di tutele alle calciatrici, per l’impossibilità di stipulare contratti di lavoro, limitava la crescita del movimento femminile: se il calcio non può sostenere una donna che lo pratica ad alti livelli, prima o poi quella donna cercherà un altro lavoro; e se mancano strutture adatte, staff adeguatamente formati e retribuiti, come si può pensare di migliorare la qualità del gioco? L’assenza di professionismo peraltro non era un problema solo per le atlete, ma in certi casi ha finito per danneggiare anche le società calcistiche italiane, che hanno perso talenti a parametro zero (Aurora Galli, dalla Juventus all’Everton, ci è andata senza alcun beneficio per la squadra, e come lei tante altre, magari meno note, che avrebbero potuto garantire introiti alle società che le avevano formate o scoperte).

Queste valutazioni, in aggiunta al crescente interesse per il calcio femminile segnato dall’esperienza ai mondiali 2019, in cui la Nazionale guidata da Milena Bertolini ha raggiunto i quarti di finale, hanno portato a scelte di politica strutturale e investimenti economici, sia da parte dello Stato, sia dalla FIGC. Così, si è ad esempio previsto, per migliorare i vivai e garantire una formazione calcistica fin dall’infanzia, che per ottenere la licenza le società di Serie A debbano avere un totale di 40 calciatrici tesserate Under 12 e che debbano partecipare al Campionato Giovanissimi e al Campionato Allievi con almeno una squadra di calcio femminile. A questo si è aggiunta la scelta di vincolare parte dei fondi richiesti dalla FIGC per il rilancio post-covid a investimenti su infrastrutture, settore giovanile e calcio femminile.

Alla base, però, bisogna guardare soprattutto all’impegno delle calciatrici e di chi si impegna per dare attenzione anche al calcio femminile: dal buon risultato della Nazionale ai mondiali 2019, in un’annata in cui l’omologa maschile non si era qualificata, alla trasmissione delle partite femminili in tv (i mondiali sulla Rai, la Serie A su La7 e Dazn), dalla scelta di dare spazio anche a voci femminili nella telecronaca alla partecipazione non solo simbolica agli organi ufficiali, come nel caso di Sara Gama vicepresidente dell’AIC, l’Associazione Italiana Calciatori. Il professionismo femminile nel calcio non è però che un punto di inizio, per lo sport in generale e quello delle donne in particolare: le calciatrici devono essere le apripista per tutte le atlete e gli atleti, tuttora dilettanti, tuttora costretti in molti casi ad arruolarsi nelle forze armate pur di vedersi riconosciute tutele retributive, contributive, previdenziali per l'attività sportiva.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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