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Lavoro per tutti e reddito minimo garantito, il piano per fermare il declino economico dell’Italia

L’economia italiana cresce sempre meno, la povertà aumenta e il potere d’acquisto scende: per cambiare la situazione serve un intervento radicale. Un piano per la piena occupazione che garantisca a tutti i disoccupati uno stipendio minimo, pagato dallo Stato, non è un utopia ma un progetto realizzabile.
A cura di Redazione
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  • di Mario Turco, senatore e vicepresidente M5S, ex sottosegretario con delega alla Programmazione economica e agli investimenti nel governo Conte bis

Negli ultimi anni, l’economia europea e in particolare quella italiana hanno subito un forte declino a causa dell’assenza di politiche industriali statali in grado di orientare gli investimenti pubblici e privati verso settori ad alta tecnologia, nell’innovazione e nella ricerca. L’Italia ha, invece, concentrato le risorse su settori maturi, a basso contenuto tecnologico dove i margini di redditività e produttività si sono progressivamente assottigliati, così come i salari. Di conseguenza, oggi ci troviamo di fronte a un’economia poco orientata alla crescita, all’equa distribuzione della ricchezza, alla formazione delle conoscenze e all’accumulazione di capitale umano e competenze.

Crescita economica "inclusiva" e piena occupazione

Per invertire questa tendenza serve riscrivere le regole del capitalismo e di funzionamento dei mercati, contrastando le rendite finanziarie e indirizzando i capitali a privilegiare l’economia reale rispetto alla speculazione finanziaria. In questa nuova prospettiva economica eco-sociale di mercato serve:

  1. Una politica economica improntata alla crescita "inclusiva", all’innovazione tecnologica e alla tutela dei comparti industriali strategici del Paese;
  2. Un piano per garantire la "piena occupazione";
  3. Misure per tutelare i salari e la dignità del lavoro.

In questo nuovo paradigma economico, la stabilizzazione monetaria e, quindi, il contenimento dell’inflazione non sono più garantiti agendo sulla domanda e accettando livelli di "disoccupazione funzionale", ma operando dal lato dell’offerta attraverso la piena occupazione e l’aumento della capacità produttiva, che dovrà essere sostenuta dalla continua innovazione.

Nel periodo post-pandemico, il potere d’acquisto delle famiglie è stato eroso del 15% a causa dell’inflazione, mentre i salari reali si sono rivalutati di solo il 6% circa, facendo così registrare una perdita netta di capacità di spesa di circa il 10%. Il Reddito di cittadinanza, che offriva un sostegno alle famiglie in povertà assoluta un sostegno, è stato cancellato, peggiorando ulteriormente la situazione dei nuclei più vulnerabili. Non a caso, nel 2023 la povertà ha toccato il record storico: 5,7 milioni di individui.

A un basso tasso di occupazione giovanile (l’Italia è ultima in Europa) si accompagna un altrettanto scarso tasso di occupazione femminile – in alcune Regioni italiane inferiore al 30% – e una percentuale di inattivi, ovvero persone che non studiano né cercano un lavoro, pari al 33,4%. Insomma: il sistema del welfare italiano è in grave difficoltà poiché si basa principalmente sulla tassazione del reddito prodotto dall’attività delle imprese, anch’esse in declino. Attualmente, il gettito delle società di capitali rappresenta il 22% del Pil, quasi dieci punti in meno del 1991. L’aumento dei regimi fiscali sostitutivi, come l’ampliamento della flat tax, hanno finito per svuotare l’Irpef.

Il divario tra ricchi e poveri è quindi cresciuto e continua a crescere come effetto del capitalismo finanziario. Per agire sui salari servono da una parte la piena occupazione e, dall’altra, un piano per la crescita economica del Paese.

Lo Stato "imprenditore"

Per rilanciare l’economia è necessario migliorare la produttività e la competitività attraverso   l’innovazione. Per garantire adeguati investimenti in tale direzione serve una politica espansiva che non può prescindere da una seria rivalutazione della centralità dello Stato, relegato oggi ad essere semplice spettatore di un mercato incapace di autoregolarsi. È necessario che lo Stato ritorni alla sua vocazione di promotore economico, con le sue imprese pubbliche nei settori strategici; ad essere sostenitore di politiche espansive anticicliche, orientate a favorire la produttività e l’innovazione nonché garante della piena occupazione produttiva, dello Stato sociale e dei diritti civili.

Le imprese a partecipazione pubblica che operano in settori di interesse strategico (energia, trasporti, manifattura di sistemi ingegneristici complessi, distribuzione etc.) hanno un potenziale trasformativo per il sistema economico e sociale del Paese, a condizione che lo Stato si assuma la responsabilità di sostenere la scelta e gli interventi di trasformazione digitale, tecnologica ed ecologica.

Occorre passare da un’economia focalizzata su settori a basso contenuto tecnologico e carenti di capitale a un’economia orientata alla crescita di settori strategici quali l’Intelligenza artificiale, i big data e l’industria 5.0 (che coniuga innovazione, formazione e ambiente). Allo stesso tempo occorre che lo Stato compia maggiori sforzi nel campo dell’istruzione pubblica e degli investimenti pubblici diretti sia nel settore Ict che nelle infrastrutture, soprattutto nel Sud Italia.

Per far questo lo Stato dovrebbe dotarsi di una banca pubblica d’investimento, che finanzi le opere pubbliche e l’innovazione/riconversione industriale, che controlli la collocazione dei titoli pubblici, emetta conti correnti pubblici e costruisca una piattaforma telematica dove gestire i conti correnti fiscali e in cui far circolare liberamente i crediti d’imposta.

Il "lavoro garantito"

Garantire la piena occupazione, riconoscendo a tutti un lavoro dignitoso che fornisca una concreta utilità produttiva per la collettività, rappresenta una delle sfide più importanti dell’Agenda 2030 delle Nazioni unite. A differenza di quanto accade in Italia, nel panorama politico internazionale l’intento di usare la politica pubblica per assicurare il diritto all’occupazione non è nuovo: la possibilità di un "lavoro garantito" (Job guarantee), difatti, trova le sue radici nella Dichiarazione universale dei diritti umani e nella proposta del Presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, della “Carta dei diritti economici”.

Oggi il diritto al lavoro è una delle componenti cruciali del Green New Deal, perché non ci può essere giustizia ambientale senza perseguire congiuntamente quella economica e sociale. L’attuale contesto economico italiano si presenta particolarmente critico, con ampi margini di degrado sociale ed economico che meriterebbero centralità nel dibattito scientifico e soprattutto politico. Siamo arrivati al paradosso che oggi anche chi ha un lavoro è povero: negli anni, infatti, la povertà è aumentata e riguarda sempre più anche la classe media e produttiva del Paese.

Il diritto costituzionale al lavoro deve tradursi – molto più di quanto non lo sia oggi – nel dovere dello Stato di garantire non solo un salario dignitoso ma anche il reinserimento lavorativo a chi è fuori dal mercato, al fine di mantenere una idonea qualità di vita a beneficio anche della crescita e dello stato sociale.

Serve una politica economica che punti a eliminare la disoccupazione – tenuta attiva per mantenere bassi i salari – e garantisca il lavoro a tutti e a tutte. Per far questo, lo Stato deve garantire il diritto al lavoro con programmi di partecipazione democratica, promosse dalle amministrazioni pubbliche e degli enti del terzo settore, in cui offrire lavoro dietro il pagamento di un salario minimo garantito, ovvero il Reddito di occupazione, che consenta di superare la soglia di povertà assoluta.

Per tali motivi, nell’ambito dell’Assemblea Costituente del Movimento 5 Stelle ho presentato una proposta per il "lavoro garantito" che è rientrata nelle 12 tematiche selezionate dai nostri iscritti, simpatizzanti e associazioni che hanno partecipato alla prima fase dell’Assemblea stessa. Nei prossimi giorni, il tema sarà oggetto di discussione e approfondimento, nella speranza che possa essere una delle nuove frontiere del M5S. Al tempo stesso, la proposta è stata già tradotta in un disegno di legge depositato al Senato dal titolo "Delega al governo per il lavoro garantito: il Piano Nazionale per la piena occupazione".

Sperimentazioni di "lavoro garantito" sono presenti in diversi Paesi occidentali, come Stati Uniti, Francia, Austria, Svezia così come nei Paesi dell’America Latina dagli anni ’90, in risposta ai problemi creati dalle politiche di aggiustamento strutturale promosse dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca Mondiale. Il più grande programma in vigore è la Bolsa Familia, promossa in Brasile nel 2003: a beneficiarne sono attualmente circa 14 milioni di famiglie, nelle quali vivono oltre 50 milioni di persone.

Coinvolgere il Terzo settore

La piena occupazione richiede che lo Stato funga da "stabilizzatore economico" offrendo lavoro di ultima istanza a chi non lo trova, dietro il riconoscimento di una retribuzione dignitosa. Se dotati di un impiego e di un salario adeguato, i disoccupati potranno soddisfare i propri bisogni e migliorare la loro qualità di vita e le competenze, contribuendo così a creare un tessuto sociale più solido e favorevole per le stesse imprese. Queste ultime si troverebbero così a dover soddisfare una maggiore domanda aggregata di beni e servizi e – di conseguenza – ad aumentare l’occupazione, con il risultato finale di realizzare una crescita economica "inclusiva".

Per facilitare l’assorbimento del maggior numero di senza lavoro, i "Programmi di partecipazione al lavoro garantito per la piena occupazione" dovranno prevedere il coinvolgimento di tutte le amministrazioni pubbliche e la collaborazione anche degli enti no profit e del Terzo settore. In tale ambito, l’offerta sarà rivolta a tutte le persone in grado di lavorare (a prescindere dalle proprie competenze) e potrà riguardare anche lavori ad alta intensità di manodopera e professionalità. Allo stesso tempo, si potrebbe estendere tale garanzia anche ai part-time involontari, per dargli la possibilità di arrivare al tempo pieno, e ai lavoratori dei settori in crisi al fine di fornirgli opportunità di riqualificazione professionale.

Le principali attività potranno riguardare la valorizzazione di beni pubblici, in ambito ambientale e le attività a favore dei più fragili (soprattutto anziani e disabili) e delle comunità territoriali, tra cui il recupero e la riqualificazione dei quartieri difficili, periferie e aree interne del Paese. Si tratterebbe di lavoro di 30/40 ore settimanali retribuite direttamente dallo Stato, in quello che potremmo definire un Servizio civile "allargato".

Come finanziare la misura

In questa sede non voglio eludere una delle questioni più importante della proposta: la sua sostenibilità macroeconomica e finanziaria nel tempo. Partiamo da un presupposto: nel solo 2012, l’Italia ha speso 29 miliardi di euro in sussidi di disoccupazione e politiche per l’occupazione. Considerando che, realisticamente, al programma potrebbero accedere 1,5 milioni di individui, a cui riconoscere un importo pari a 1.000 euro lordi al mese, la spesa si attesterebbe intorno ai 20 miliardi – considerando pure i costi di gestione e/o la fornitura di mezzi e strumenti.

Si tratterebbe, quindi, di un intervento sostenibile, anche perché dopo la fase di avvio la misura sarebbe in parte autofinanziata dall’effetto moltiplicatore "di ritorno" dell’aumento di consumi ed entrate tributarie. È bene precisare che tale cifra corrisponde a meno del 2% della spesa pubblica, addirittura inferiore ai costi da sostenere per portare le spese militari allo stesso 2% del Pil. È da escludersi – lo diciamo chiaro e tondo – qualsiasi ipotesi di aumento delle tasse come forma di finanziamento.

In alternativa, altre strade da percorrere potrebbero essere l’emissione di particolari titoli pubblici da escludere dal calcolo del deficit (ciò richiederebbe la modifica dei trattai europei e in particolare del Fiscal compact), la richiesta di far rientrare il programma nell’ambito del Quantitative easing o il riconoscimento – a fronte del salario di base maturato – di un "credito d’imposta cedibile" da utilizzare per acquistare beni e servizi essenziali. Quest’ultima soluzione presenta degli indubbi vantaggi: non solo la sua immediata praticabilità ma anche il miglioramento del rapporto debito/Pil, frutto dell’aumento della crescita economica.

In ultimo, per facilitare l’avvio del progetto per la piena occupazione e ridurre il fabbisogno finanziario iniziale si potrebbe pensare di modulare il programma di inserimento al lavoro progressivamente, ad esempio a scaglioni di età partendo da quelli che hanno più difficoltà al reinserimento lavorativo (gli over 50), oppure di anzianità di disoccupazione per arrivare così alla piena occupazione in un certo quanto accettabile intervallo di tempo.

Siamo convinti che se ben strutturata, organizzata e condivisa ai diversi livelli amministrativi e di partecipazione, la proposta possa garantire l’universalità del diritto al lavoro e di una vita dignitosa.

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