È dentro le vittorie più dolci che si nascondono le peggiori insidie. Ed è proprio dentro la vittoria più schiacciante di queste elezioni regionali – il 77% con cui il centrodestra si conferma in Veneto – che si annidano le due grandi minacce per Matteo Salvini. Che, è vero, se si votasse oggi sarebbe quasi certamente il presidente del consiglio incaricato, essendo il leader del primo partito della coalizione largamente preferita dagli italiani, quella di centrodestra. Ma la cui rendita di posizione, figlia dello straordinario consenso raggiunto da ministro dell’interno durante il primo governo Conte, è ora minacciata da due pericolosi competitor interni.
La prima minaccia è interna alla sua stessa coalizione e si chiama Giorgia Meloni. Fratelli d’Italia, infatti, non solo supera la Lega nelle due regioni del Mezzogiorno al voto, Puglia e Campania, ma sale al 10% anche nel profondo nord est, a soli 7 punti dalla Lega. Per offrire un termine di paragone, alle regionali del 2015 la Lega era su percentuali analoghe a oggi, attorno al 17%, mentre Fratelli d’Italia ha quintuplicato i suoi voti, passando dal 2 al 10.
La seconda minaccia è interna al suo stesso partito, e si chiama Luca Zaia. Che rispetto alle regionali del 2015, raddoppia il proprio consenso personale portando la lista che porta il suo nome dal 23% al 44%, e il suo consenso complessivo a un siderale 77%, grazie all’ottima gestione dell’emergenza Covid. Una vittoria del genere autorizza a puntare alto: l’acquario Veneto ormai è troppo piccolo per il consenso del suo governatore. Che può legittimamente contendere la leadership della Lega al suo attuale Capitano, o perlomeno provare a correggerne una rotta troppo nazionalista, troppo xenofoba e troppo anti-europea per il presidente di una regione legata a doppio filo al resto del Vecchio Continente – e alla Germania, in primis -, da sempre bisognosa di manodopera straniera e che da sempre fa dell’autonomismo la propria ragion d’essere.
La tenaglia Zaia-Meloni è la trappola perfetta per il leader leghista. Perché se la Lega tornasse a essere il partito del Nord, lascerebbe a Fratelli d’Italia praterie enormi per consolidarsi come la gamba meridionalista della coalizione di centrodestra, indebolendo ulteriormente Salvini e facendo infrangere definitivamente il suo progetto di una Lega Nazionale, egemone dalla Val d’Aosta alla Sicilia.
Indendiamoci: la crescita delle leadership di Zaia e Meloni è una pessima notizia per il centrosinistra, perché rafforza ulteriormente la capacità del centrodestra di raccogliere consensi tra i ceti produttivi del Nord (Zaia) e tra i disoccupati del Sud (Meloni), andando a prosciugare ulteriormente lo stagno di un centrosinistra che ormai vive delle sue ridotte tosco-emiliane, del residuo potere politico-clientelare dei suoi capibastone meridionali e del morbido carisma del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Fuori da lì, il deserto, o quasi.
L’unica speranza, per Zingaretti e Di Maio, è che il centrodestra finisca per farsi male da solo, facendo esplodere tutte le sue contraddizioni, incapace di trovare una sintesi efficace tra federalismo e nazionalismo, tra anti-europeismo e rappresentanza dei ceti produttivi. Anche se, va detto, l’ipotesi che il Pd possa approfittarne al Nord, e il Movimento Cinque Stelle al Sud, appare oggi ancora piuttosto remota.