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L’analisi sui test sierologici è un flop, i medici: “Regioni dovevano informarci, non l’hanno fatto”

I test sierologici predisposti dal governo su un campione di 150mila persone procedono a rilento, anche a causa di una carenza di comunicazioni da parte delle Regioni e delle Province autonome, che avrebbero dovuto avvisare i medici di base dei pazienti che si dovrebbero sottoporre al test. Il sindacato medici italiani, però, denuncia che non c’è stato alcun reale coinvolgimento.
A cura di Stefano Rizzuti
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I test sierologici che devono essere eseguiti su un campione di 150mila persone in tutta Italia, decisi dal governo a fini statistici, vanno a rilento. E tra le tante cause c’è sicuramente una lacuna nelle comunicazioni. Nello specifico, in quelle che le Regioni avrebbero dovuto inviare ai medici di famiglia dei pazienti coinvolti nel campionamento. I medici, difatti, dovrebbero avere un ruolo attivo nel coinvolgimento – e se necessario del convincimento – dei pazienti che dovrebbero sottoporsi al test sierologico. Il protocollo metodologico per l’indagine di siero-prevalenza, una sorta di documento attuativo del decreto, prevede infatti che i medici vengano coinvolti attivamente insieme ai loro pazienti. E questo dovrebbe avvenire tramite due passaggi: il primo lo devono svolgere le Regioni, che dovrebbero avvisare i medici di base della presenza di un loro paziente nel campione interessato; il secondo dovrebbero svolgerlo gli stessi medici, che dovrebbero informare il paziente.

Nello specifico la Croce Rossa, nel momento in cui contatta una delle persone che devono sottoporsi al test volontario e quest’ultima rifiuta, ha la possibilità di parlare proprio con il medico di base del paziente, che potrebbe così provare a convincere la persona chiamata. Ma i medici, finora, non sono stati avvertiti dalle proprie Regioni, con una mancanza di comunicazioni più o meno identica in tutta Italia, come denuncia anche il Sindacato medici italiani (Smi). E così per i medici di famiglia è difficile svolgere un ruolo attivo nel convincimento del paziente a sottoporsi al test, non avendo avuto molto spesso idonea comunicazione.

Cosa prevede il protocollo sui test sierologici

Nel protocollo, pubblicato sul sito del ministero della Salute, si dice chiaramente che “le Regioni e Province Autonome comunicano i nominativi dei soggetti del campione ai medici di medicina generale e ai pediatri di libera scelta affinché informino i propri assistiti rientranti nel campione”. Un doppio passaggio, quindi: dalle Regioni ai medici e dai medici ai pazienti, prima ancora che arrivi la chiamata della Croce Rossa. In un'altra parte del protocollo si ribadisce che per favorire l’adesione all’indagine sierologica le Regioni e le province autonome devono comunicare “con modalità sicure ai medici di medicina generale e ai pediatri di libera scelta i nominativi dei relativi assistiti rientranti nei campioni, affinché li informino dell’indagine in corso”. E, infine, si spiega anche il perché: “Poiché potrebbero rimanere numeri non raggiungibili per vari motivi, in tali casi si provvede per il tramite delle Regioni e Province Autonome ad avere un contatto con le unità anche attraverso il medico di medicina generale o pediatra di libera scelta”. Se, quindi, il paziente non è contattabile in altro, dovrebbe entrare in gioco il medico.

La denuncia del sindacato: medici non coinvolti

Pina Onofri, segretario generale del Sindacato medici italiani, denuncia a Fanpage.it la scarsa comunicazione e le conseguenti problematiche: “Per l'indagine sierologica predisposta dal ministero della Salute sul campione di 150mila persone per individuare gli anticorpi al Covid, sono arrivate solo delle comunicazioni molto generiche agli studi medici, nel caso che propri pazienti vengano scelti per l’indagine. Fatto sta che i medici di medicina generale non sono stati coinvolti in maniera attiva, ma semplicemente informati”. Onofri prosegue: “Queste informazioni, tra l’altro, non sono arrivate in maniera capillare a tutti i medici italiani; stimiamo che la notizia sia giunta solo al 10%  dei medici di medicina generale”.

Il segretario generale del Smi continua: “C’è da aggiungere che, fatto strano, che non siamo stati interpellati su quale tipologia di pazienti da noi assistiti dovesse essere sottoposta, seconda la nostra valutazione, all’indagine sierologica. I medici di medicina generale andrebbero coinvolti in tutto il Paese in modo uniforme (da nostre fonti, in Veneto è possibile, ma in Calabria no) per mettere a disposizione, dell’indagine sierologica la conoscenza delle patologie dei pazienti e realizzare una vera condivisone tra medicina del territorio e strumenti di rilevamento per la prevenzione del rischio causato dal coronavirus”.

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