La caduta del governo Draghi ha cambiato tutto e non poteva essere altrimenti. Sono bastati pochi giorni per mettere in discussione mesi di lavoro politico – istituzionale e riportare il Paese in condizioni di incertezza e confusione. Infatti, accanto al necessario lavoro di completamento delle missioni del Pnrr (al netto del maggior tempo che potrà essere concesso dalla Ue per il raggiungimento degli obiettivi prefissati), ci sono importanti dossier da gestire, tra cui la crisi energetica e il rilancio di una campagna vaccinale che potrebbe salvare migliaia di vite. Non esattamente una passeggiata, non l’esatta definizione di “affari correnti”.
In questo contesto, ai partiti toccherà impostare la campagna elettorale, costruire alleanze e liste, litigare per seggi e poltrone. Un’impresa titanica, che drenerà energie e certamente non aiuterà quello sforzo di responsabilità che, nelle parole del Presidente Mattarella, è necessario per permettere al Paese di reggere in autunno. Il vero problema è che lo stato di salute complessivo dei partiti italiani non è affatto dei migliori. La crisi di governo, che ne è la conseguenza più che la causa, ha scompaginato il quadro politico e ha fatto saltare quel minimo di progettualità che gran parte dei partiti era riuscita a definire per prepararsi alla fine della legislatura. A poco più di due mesi dal voto degli italiani, per farla breve, ci sono più incognite che certezze, con molti soggetti che hanno la necessità di reinventarsi da capo e in tempi velocissimi.
L’esperienza di Draghi a Palazzo Chigi, per come è cominciata e soprattutto per come si è conclusa, ha terremotato la scena politica italiana. Ha isolato le posizioni radicali e ampliato lo spazio al centro, contribuendo alla nascita di una serie di formazioni politiche che si ispirano alla sua “agenda”. Quest’area, disomogenea e balcanizzata, ha assunto una rilevanza nel dibattito pubblico che non aveva da tempo, anche grazie allo spropositato consenso sui media di cui ha goduto e gode ancora Mario Draghi. La rottura fra il Partito democratico e il Movimento 5 stelle, poi, l’ha portata al centro delle strategie elettorali, malgrado i sondaggi continuino a essere impietosi e le prime simulazioni restituiscano un’altissima probabilità di raccogliere una sconfitta netta il 25 settembre.
Per farla breve, si sta avverando il sogno renziano/centrista, la costituzione di un nuovo bipolarismo: da una parte i “competenti e moderati”, dall’altra i “sovranisti e populisti”. Un progetto che per mesi ha visto la contrarietà del Partito democratico, impegnato nella costruzione del campo largo con il Movimento 5 stelle e non solo, ma che ora sembra essere “la sola opzione in campo”, come confermato da Guerini: “Chi è stato protagonista della caduta del governo Draghi non può essere interlocutore del Pd. Punto. Non c'è molto da aggiungere”. Come ha spiegato Dario Franceschini, infatti, ora l’idea è quella di costruire “un rassemblement largo, interprete e garante dell’agenda Draghi”, che “batterà la destra” perché il “Paese non dimentica” come è stato fatto cadere questo governo.
L’entusiasmo di analisti e giornalisti, però, non basta a colmare le enormi lacune di un progetto del genere. La prima, evidente, è l’indisponibilità di Mario Draghi a guidare personalmente quest’allegra macchina da guerra anti-populista. L'ex numero uno della Bce ha mostrato spesso insofferenza verso chi lo descriveva come "argine al populismo", rendendosi conto dell'enorme rischio banalizzazione insito dietro ogni divisione manichea del quadro politico. Ha sempre smentito la possibilità di una sua discesa in campo, men che meno come federatore di un'area che ancora non esiste se non su Twitter e su alcuni giornali: era valido nel febbraio del 2022, lo è ancor di più adesso. Siamo in presenza di un progetto politico nebuloso e confuso, che ha come unica ragion d'essere l'assenza di alternative, che propone un dualismo che appunto Draghi rifugge, e che per giunta dovrebbe essere gestito da tanti generali senza esercito.
C'è "l'agenda Draghi" a fare da collante, ci sentiamo ripetere come un mantra in questi giorni. Eppure, a ben guardare, l'agenda Draghi non esiste né come programma, né come piattaforma ideologica, né infine come metodo di selezione della classe dirigente o di pratica politica. È una creatura mitologica, alimentata dagli slogan e dalle analisi di politologi e opinionisti, ma dai contorni ancora vaghi e confusi. C’è il cronoprogramma del Pnrr, con obiettivi e missioni, certo. Ma parliamo di un piano approvato dalla stragrande maggioranza del Parlamento, anche dai populisti e sovranisti brutti, sporchi e cattivi. E c’è la gestione emergenziale delle crisi, quella pandemica ed energetica soprattutto, fatta di interventi una tantum o di commissariamenti. Nulla che somigli a una piattaforma unitaria intorno alla quale costruire una coalizione, men che meno una proposta di governo. Tant’è vero che in queste ore già ci si accapiglia sulle diverse declinazioni di questa fantomatica agenda Draghi (qui, qui e qui, per citare fior da fiore).
Probabilmente, l'unico vero elemento di distinzione è quello del supporto all'Ucraina. Perché, per quanto Meloni e Salvini si stiano affannando a ribadire che il posizionamento dell'Italia non cambierà, è difficile disconoscere i legami pregressi della destra italiana con la Russia putiniana, che hanno determinato vicinanze personali, ideologiche e strategiche, che rischiano di indebolire la linea europea nella gestione del conflitto. È un punto sul quale la macchina draghiana dovrà lavorare bene, potendo contare anche sul supporto delle cancellerie internazionali.
Al momento, però, nella migliore delle ipotesi, siamo di fronte a un cartello elettorale. Anche su questo piano, le difficoltà restano enormi, data l'estrema balcanizzazione dell'area e le distanze che permangono fra i leader e gli aspiranti tali. Il motore centrista della coalizione è frastagliato, con gruppetti da tempo in aperto contrasto (Azione, Italia Viva, dimaiani), che già pongono veti e condizioni adesso, figurarsi quando si tratterà di discutere di candidature e programmi. La probabile presenza dei ministri uscenti provenienti dal centrodestra e dall'area tecnica, poi, affolla ulteriormente il carro draghiano e aggiunge ulteriore incertezza sulla stabilità della nuova creatura.
Paradossalmente, il problema minore è rappresentato dal consenso elettorale. Perché se è vero che i sondaggi sono negativi, allo stesso tempo è tutta da valutare la reazione degli italiani alla strana caduta del governo Draghi: andare subito alle urne è quasi un vantaggio, perché potrebbe permettere di capitalizzare il consenso dei cittadini delusi dalla "politica irresponsabile e sfascista". La radicalizzazione della proposta politica grillina, in questo contesto, finirebbe per dar fastidio proprio a Salvini / Meloni, che avrebbero un contendente nel loro campo di azione; l'effetto polarizzazione porterebbe alla logica del voto utile, da anni la risorsa più efficace per il centrosinistra italiano. Certo, i collegi uninominali sono un enorme problema, ma la campagna elettorale è lunga e le cose possono cambiare.
Resta una strada tutta in salita, anche se probabilmente una delle poche ancora percorribili. Gli errori dei Cinque stelle nella gestione della crisi e le difficoltà strategiche della sinistra, infatti, riducono oggettivamente i margini per la costruzione di un soggetto competitivo e alternativo alla destra di Salvini, Meloni e Berlusconi. E finora gli appelli a "un fronte più ampio possibile", che provi a recuperare tutte le forze utili alla battaglia elettorale, sono caduti nel vuoto.