Che ci fosse un complotto per far vincere il Movimento 5 Stelle a Roma era chiaro da tempo, da quando gli allegri apprendisti stregoni della politica renziana decisero di cacciare Marino e affidare una città in pieno fermento pre Giubileo a un oscuro funzionario dello Stato (nemmeno dei più efficaci, a quanto si è poi potuto appurare). La conferma si è poi avuta con lo psicodramma “Bertolaso” e la spaccatura in casa centrodestra, con Berlusconi capace di compiere la mossa decisiva per mandare la Raggi al Campidoglio: impedire l'approdo al ballottaggio all’unica candidata “competitiva in un certo tipo di elettorato”, la (un tempo) amatissima Giorgia Meloni. Ora, la trappola perfetta è pronta a scattare. Tradotto, e fin qui ero sarcastico, la Raggi è a un passo dal conquistare il Campidoglio, portando il Movimento 5 Stelle a governare la Capitale.
A Torino Chiara Appendino avrà la possibilità di completare un percorso di crescita in autorevolezza e considerazione con il turno di ballottaggio del 19 giugno. Il risultato del primo turno è se possibile ancor più significativo di quello di Roma, poiché ottenuto al di fuori della “logica emergenziale” in cui è maturato il boom della Raggi. Torino è una città tutto sommato ben amministrata, da un politico esperto e accorto, anche se a un livello zero di empatia, e il PD non vive una situazione di caos organizzato come nel caso romano.
La Appendino e la Raggi però sono prima di tutto la testimonianza di un fatto lapalissiano ma troppo spesso dimenticato dalla politica: gli elettori premiano progetti a medio e lungo termine, tendono a seguire i percorsi di crescita della classe dirigente e a respingere piattaforme raccogliticce e raffazzonate. E il prodotto 5 Stelle funziona dove è il livello territoriale a emergere con forza, con una classe dirigente locale legittimata dal sostegno degli attivisti e da anni di lavoro sul campo. Le due candidate grilline hanno in comune militanza, attivismo, ma anche impegno politico pregresso, esperienza amministrativa, una consiliatura di spessore durante la quale hanno costruito relazioni e consenso.
Di contro, come detto, dove “la longa manus del Comintern a 5 Stelle si allunga e determina le scelte, scavalcando il livello territoriale e imponendo candidature e piattaforma politica, i candidati grillini rimediano figure barbine”.
Se non ci sono dubbi sul fatto che Torino e Roma rappresentino "eventi" clamorosi e potenzialmente capovolgenti della scena politica italiana, dei veri e propri turning point per il cammino del M5S, allo stesso tempo bisogna aver chiaro qual è il limite strutturale con cui i grillini devono fare i conti. Basta dare un'occhiata ai risultati nelle altre città "maggiori" interessate dal voto: percentuali basse, marginalità della proposta politica, poche chance di competere per la vittoria, solo qualche sporadica comparsa ai ballottaggi. Il tutto senza nemmeno considerare il "prima", ovvero le liti per il simbolo, le scomuniche, i contenziosi, le espulsioni. In molti hanno parlato di "affermazione a macchia di leopardo del M5S" e in parte è vero (ci sono molte città in cui le liste grilline sfiorano il 20% e, in generale, registrano una impennata di consensi). Ma senza il boom di Roma e l'exploit di Torino, il peso dei flop di Milano e Bologna (perché quello di Bugani è un flop, sia chiaro) e di Napoli (con tutte le attenuanti) avrebbe cambiato completamente di senso ogni valutazione.
Cherry picking, dunque. Perché, a essere sinceri la valanga a 5 Stelle non l'abbiamo vista. Ma sui monti, si sa, basta un piccolo blocco di neve per scatenare una reazione a catena. E se poi questo blocco parte da Roma o Torino, allora…