Sebastian Galassi è morto a 26 anni, per strada, lavorando come rider per Glovo. Per l’algoritmo che ne guidava il tragitto, fissando ordini e tariffe, l’incidente che ha ucciso un giovane uomo non è altro che un input negativo, una mancata consegna, in base alla quale scatta il licenziamento automatico, la disattivazione dell’account. La piattaforma si è scusata con la famiglia per il messaggio, definendo l’invio un errore del sistema: ma l’errore non è il messaggio, l’errore è il sistema.
Le piattaforme sono colossi fondati sul lavoretto
La cosiddetta gig economy, letteralmente "economia del lavoretto", è un modello di mercato basato sull’intermediazione tra le esigenze degli utenti e la disponibilità di lavoratori occasionali. Nel caso del food delivery, da un lato ristoranti e consumatori desiderano consegne a domicilio a basso prezzo, dall’altro studenti, precari, disoccupati si offrono di effettuarle, con mezzi propri, indirizzati dagli ordini di un’app per smartphone. Chi controlla l’app, la sviluppa (e raccoglie i dati, li usa, controlla i flussi e li organizza) è la piattaforma: dietro questo termine neutro ci sono imprese, realtà economiche spesso internazionali. Glovo, ad esempio, fa capo a Foodinho S.r.l., con sede legale a Milano, controllata al 100% da GlovoApp23 SL, con sede a Barcellona, il cui azionista di maggioranza è Delivery Hero, società multinazionale tedesca.
Eppure, nonostante la grandezza della struttura organizzativa, l’attività economica dei brand si basa su un’idea di lavoro come hobby, da svolgere quando si vuole, per arrotondare. Ed è su questo trucco che si basa lo sfruttamento dei lavoratori, che inizia proprio dal non definirli mai lavoratori.
Lo slittamento del linguaggio: nuove espressioni, vecchi difetti
Nel messaggio di licenziamento per Sebastian, ucciso da un incidente mentre effettuava una consegna, si nota proprio questo slittamento lessicale e concettuale. "Siamo spiacenti di doverti informare che il tuo account è stato disattivato per il mancato rispetto dei Termini e condizioni", si legge nel messaggio. È di fatto una lettera di licenziamento, ma non troviamo termini tecnici come recesso, prestazione, inadempimento, contratto: l’essenza del rapporto slitta nel digitale, con un account disattivato. Nemmeno la parola "lavoratore" compare, neanche sfumata nell’inglesismo rider: il fattorino che non ha portato a termine la consegna è semplicemente "uno di questi utenti" che "non si comporta in modo corretto".
Sono parole patinate, che ignorano le categorie del diritto del lavoro per spostare la dinamica su un piano di puro mercato e consumo, di "termini e condizioni", come se il rider avesse sottoscritto un abbonamento a Netflix invece che un contratto di lavoro.
Corrieri autonomi: così Glovo tratta i fattorini
I rider di Glovo però un contratto ce l’hanno: è un contratto di prestazione d’opera. Stipulando l’accordo (standardizzato, uguale per tutti, inviato via e-mail), i fattorini si impegnano a prelevare beni, consegnarli ai clienti ed eventualmente incassarne (in nome e per conto della società) il prezzo, avendo la libertà di offrirsi per lavorare secondo le proprie disponibilità. Per questa ragione (ignorando la soggezione agli ordini dell’app, il funzionamento dei meccanismi reputazionali dell’algoritmo e la standardizzazione del trattamento), i rider di Glovo sono considerati dalla piattaforma lavoratori autonomi. Questa qualificazione (tanto discutibile quanto discussa) implica minori tutele per i rider.
Non tutti inquadrano i rider in questo modo: aderendo ai tavoli di confronto, altre piattaforme (Just Eat, ad esempio) hanno qualificato i propri lavoratori come subordinati o parasubordinati, garantendo qualche tutela in più, tra cui l’applicazione del contratto collettivo della logistica. Si tratta però di una scelta minoritaria, a cui altri hanno preferito sottrarsi: Deliveroo, FoodToGo, Glovo, SocialFood e Uber Eats hanno infatti fondato Assodelivery e, scegliendo UGL invece di sedersi ai tavoli governativi con altre sigle sindacali, hanno stipulato un accordo collettivo.
Assodelivery e il contratto collettivo con UGL
Il 15 settembre 2020, Assodelivery stipula con UGL un contratto collettivo. Due giorni dopo, l’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro emana una nota con cui evidenzia diversi punti critici (quando non illegittimi) del contratto.
Innanzitutto la rappresentatività: la negoziazione di un contratto collettivo pone a confronto gli interessi di due parti in conflitto, che devono essere tutelate dai propri delegati. Tuttavia, mentre dell’associazione datoriale Assodelivery fanno parte le maggiori piattaforme, tra i rider manca un’adesione massiccia a UGL (sì, proprio quel sindacato di destra citato nell’inchiesta di Fanpage.it Follow the money), e questo pone diversi dubbi sull’effettiva rappresentatività degli interessi dei lavoratori nella stipulazione del contratto. In effetti, pochi mesi più tardi, il Tribunale di Bologna, su ricorso della CGIL, riconosce la condotta antisindacale di Deliveroo nell’imporre ai propri rider il nuovo contratto collettivo, licenziandoli se non accettavano.
Ma che cosa c’è di male in quel contratto? Da un lato, c’è un’arbitraria qualificazione dei rider come lavoratori autonomi (ma la scelta tra lavoro autonomo o subordinato, con le tutele che ne derivano, dipende dal concreto svolgimento delle prestazioni, non da una definizione formale). Dall’altro lato, soprattutto, nonostante la riforma del 2019, la paga oraria imposta dal contratto collettivo UGL-Assodelivery somiglia pericolosamente al cottimo.
Più consegni, più guadagni: il paradosso del cottimo in minuti
Il compenso previsto dal CCNL-Rider siglato da UGL e Assodelivery si basa su un ibrido tra il numero di consegne e il tempo stimato per esse dalle piattaforme. Il contratto collettivo indica infatti come compenso orario 10 euro lordi, ma i minuti dell’ora devono essere "consecutivi", effettivamente impiegati nella consegna. Quindi il tempo di disponibilità, quello cioè in cui il rider resta in attesa degli ordini e comunque pronto al lavoro, sono esclusi dal conteggio (e dalla retribuzione): se il rider decide di lavorare un’ora, verrà di fatto pagato in base al numero di consegne che avrà portato a termine. Le associazioni dei rider denunciano paghe da fame: tre settimane fa Deliverance Milano aveva proclamato sciopero proprio per protestare contro i compensi bassissimi (perfino 2,50 euro per corse da 10km) e chiedere maggiori tutele.
A questo sistema di pagamento, che induce all’aumento del numero di consegne nell’arco delle ore di lavoro, si aggiungono i meccanismi premiali: al rider che raggiunga duemila consegne (o multipli di duemila) per anno solare viene concesso un premio di 600 euro, fino a un massimo di 1.500 euro per singola piattaforma (ma ciascun rider può lavorare per più di una piattaforma).
Il messaggio di licenziamento post mortem più che un errore è una conferma
In un sistema basato sull’efficienza, nel flusso quantitativo di dati, ordini e consegne, la vita di un lavoratore finisce per essere una variabile trascurabile per il business. L’invio del messaggio di disattivazione dell’account, più che una svista dell’algoritmo e il frutto cinico delle sue azioni automatiche, è la dimostrazione della sua prevalenza sulle esigenze umane, con una preminenza crudele che ricalca quella del capitale sul lavoro. E, nell’ambito della gig economy come più in generale nelle dinamiche di mercato e nella disciplina giuslavoristica dell’ultimo quarto di secolo, lo sfruttamento dei lavoratori passa ancora una volta dalla loro trasformazione in utenti di una piattaforma o in risorse umane, con processi di esternalizzazione e di intermediazione, in riforme normative in cui ci si è preoccupati di ridurre le tutele contro i licenziamenti illegittimi perdendo di vista il valore profondo, democratico, del lavoro dignitoso.