Dopo una lunga attesa, abbiamo finalmente il testo della lettera con la quale il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte intende aprire la negoziazione per bloccare la procedura di infrazione della UE nei confronti dell’Italia. Come anticipato nel corso della sua intervista a Fanpage.it, si tratta di un testo politico più che tecnico, una scelta discutibile ma comunque legittima se si considera che proprio ieri sera il Consiglio dei ministri ha deciso di indirizzare alla riduzione del deficit i due miliardi accantonati nella legge di bilancio e ha cominciato a impostare la prima bozza di assestamento di bilancio, che dovrebbe smuovere circa 3,2 miliardi di euro. Passi non sufficienti, con ogni probabilità.
Conscio di ciò, della oggettiva esposizione italiana sul piano dei conti, il Presidente del Consiglio prova a spostare la questione sul piano politico. Lo fa secondo uno schema di pensiero ormai noto: l’Europa della finanza e dei mercati non è più rappresentativa delle istanze dei cittadini, che mostrano “segnali di insofferenza, dinanzi ai quali non possiamo rimanere indifferenti”. L’Italia dunque intende sfruttare questo momento per “affrontare con lucidità e spirito critico alcuni limiti strutturali del progetto europeo” e si pone, “quale Paese fondatore della casa comune”, l’obiettivo di spingere la UE ad “assumere, con coraggio e visione, decisioni fondamentali per il nostro futuro”. L’analisi da cui parte, peraltro condivisa anche da controparti politiche con riferimenti ideologici diversi, verte sull’idea che alcuni “modelli di sviluppo e di crescita si sono rivelati inadeguati di fronte alle sfide poste da società impoverite, attraversate da sfiducia, delusione e rancore”. L’obiettivo, ripete, è quello di “pervenire a un sistema integrato di governo che possa perseguire effettivamente, in modo stabile e duraturo, il benessere economico e sociale dei popoli”.
Pur volendo considerare concreta e non strumentale la proposta italiana, non si capisce chi potrebbe o dovrebbe accompagnare il nostro Paese in questo sforzo di revisione delle regole e degli orientamenti della UE. Il problema è che Conte sembra ignorare il pressoché totale isolamento del nostro Paese, che emerge dal supporto generale alla procedura di infrazione nei nostri confronti. Politicamente, insomma, siamo soli e senza alleati, dunque non si capisce in che modo e in che tempi possa coagularsi intorno alla proposta italiana questa “riflessione sulla nuova Europa”, che occupa la quasi totalità della lettera italiana alla UE.
Cosa più importante di tutte, non si capisce in che modo il governo intenda affrontare la procedura di infrazione. Richiesta che ha delle precise ragioni, che converrà riassumere brevemente per capire di cosa stiamo parlando.
Lo scorso 5 giugno la Commissione Europea ha reso noto il quadro completo delle “proposte di raccomandazioni di politica economica specifiche per 27 Stati membri per i prossimi 12-18 mesi che verranno adottate nel mese di luglio dal Consiglio”. L’Italia già a febbraio era stata inserita nella ristretta lista dei Paesi che presentavano squilibri eccessivi a livello macroeconomico, assieme a Cipro e Grecia. Come spiegava un report del Centro Studi del Senato, invece, per quel che concerne le raccomandazioni specifiche in tema di finanza pubblica e tassazione, “la Commissione evidenzia che il criterio del debito non possa considerarsi soddisfatto e che, pertanto, una procedura di infrazione per debito eccessivo debba considerarsi certa”. L’Italia è l’unica nazione per cui si propone di attivare la procedura: Ungheria e Romania se la sono cavata con un “warning”, mentre Francia, Belgio e Cipro sono uscite indenni dalla fase di valutazione.
Il disavanzo strutturale del nostro Paese dovrebbe passare, nelle stime del governo, dal 2,1% del 2018 al 2,4% del 2019, per poi scendere al 2,1% nel 2020 (subordinato all’aumento dell’IVA, tra l’altro) e all’1,5% entro il 2022; il debito pubblico si prevede “cresca al 132,6% nel 2019 (dal 132,2% del 2018), per poi scendere entro il 2022 al 128,9%, a fronte di un programma di privatizzazione che vale un punto percentuale di PIL nel 2019 e 0,3 punti di PIL nel 2020”. La Commissione UE, semplicemente, giudica non realistiche tali stime, ma soprattutto ritiene che “una più bassa crescita e un più elevato deficit possano rendere l’obiettivo di riduzione del debito non raggiungibile nei tempi prefissati”.
Tanto per essere ancora più chiari. La Commissione UE, oltre agli altri appunti del Consiglio d’Europa, raccomanda in particolare di:
- assicurare una riduzione in termini nominali della spesa pubblica primaria netta dello 0,1 % nel 2020, corrispondente a un aggiustamento strutturale annuo dello 0,6 % del PIL;
- utilizzare entrate straordinarie per accelerare la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL;
- spostare la pressione fiscale dal lavoro, riducendo le agevolazioni fiscali;
- contrastare l'evasione fiscale, in particolare nella forma dell'omessa fatturazione;
- attuare pienamente le passate riforme pensionistiche al fine di ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia nella spesa pubblica;
- investimenti in materia di ricerca e innovazione;
- affrontare le restrizioni alla concorrenza.
Le risposte dell'Italia hanno i contorni della "flat tax", della "riduzione del cuneo fiscale". E sempre con la certezza che "mai e poi mai aumenterà l'IVA", sempre senza dirci con quali soldi (si spera) eviteremo l'aumento. Sullo sfondo, ancora aleggiano mini-bot e suggestioni di altra natura. Un quadro del genere, cui aggiungere la summa dei problemi strutturali del nostro Paese, richiederebbe un minimo di chiarezza da parte dell'esecutivo, che dovrebbe spiegare una volta per tutte se e come intende recepire le indicazioni della UE. E, prima ancora, se intenda recepirle o se si prepari allo scontro whatever it takes. Presentare "la riflessione sull'Europa" come alternativa vera e concreta non è serio.