Questa che stiamo per raccontare è una storia tutta italiana, un Paese in cui burocrazia, commistioni fra poteri, logiche emergenziali e incapacità di assumersi oneri e responsabilità producono situazioni al limite del paradossale. È una storia che è parte di un racconto più ampio, quello dell’emergenza rifiuti in Campania, protrattasi senza soluzione di continuità dal 1994 al 2009. In quel buco nero di incapacità amministrativa e gestionale, oltre che di malaffare e corruzione, sono rimaste incastrate le vite di migliaia di cittadini.
La vicenda in questione riguarda 72 lavoratori, assunti dai Consorzi intercomunali per lo smaltimento dei rifiuti nella provincia di Benevento, che da anni aspettano di ricevere retribuzioni e risarcimenti danni, dopo aver vinto lunghissime battaglie giudiziarie. Come vedremo, però, non si tratta di una semplice vertenza di lavoro, ma di un caso piuttosto complesso e dai risvolti kafkiani, che mostra uno spaccato di quello che è stata la gestione dell'emergenza rifiuti in Campania, ma più in generale di quella che è la confusione amministrativa e burocratica del nostro Paese. Per capire di cosa stiamo parlando, dobbiamo fare una piccola digressione e parlare dei "famosi" consorzi di bacino, parte centrale di questa storia.
Si trattava di uno strumento previsto dalla legge regionale numero 10 del 10 febbraio 1993, che, almeno in via ipotetica, avrebbe potuto avere un ruolo chiave nel superamento dell’emergenza. I comuni avevano infatti l’obbligo di aderire ai 18 consorzi previsti per la Campania (pagando la cosiddetta “quota consortile”), delegando a essi la gestione della raccolta differenziata e di tutte le altre attività legate al sistema dei rifiuti. L’idea del legislatore era quella di diminuire gli sprechi e migliorare la gestione dei rifiuti, attraverso l’efficientamento e la razionalizzazione dei servizi, in modo da diminuire il volume degli scarti conferiti direttamente in discarica. Lo strumento dei consorzi fu considerato centrale anche nel decreto legge dell’11 maggio 2007 (governo Prodi II), con il quale si stabiliva l’obbligo per i comuni della Campania di avvalersene “in via esclusiva per lo svolgimento del servizio di raccolta differenziata”. Del resto, i consorzi avevano già provveduto ad assumere i lavoratori e, in linea teorica, avrebbero dovuto avere know how e risorse per occuparsi della raccolta dei rifiuti. L’organizzazione interna dei consorzi, con un’assemblea costituita dai rappresentati dei comuni cui spettava il compito di eleggere consiglio di amministrazione e presidente, avrebbe inoltre potuto garantire un corretto e preciso utilizzo dei fondi e degli strumenti.
Le cose però sono andate piuttosto diversamente e i consorzi sono diventati dei carrozzoni inefficienti e indebitati. In primo luogo, i comuni campani hanno aggirato spesso e volentieri l’obbligo di affidare a essi i propri servizi di raccolta e smaltimento rifiuti. Adducendo a pretesto le inefficienze dei consorzi e intendendo mantenere il controllo su appalti e risorse (che, soprattutto nei piccoli centri, significa potere e consenso elettorale), i comuni hanno optato per soluzioni diverse, appaltando la gestione dei rifiuti a imprese private e cooperative di servizi. Una scelta che ha finito col determinare enormi buchi nelle casse dei consorzi, ma che è sostanzialmente passata in cavalleria, senza trovare alcuna opposizione, né dagli organismi di controllo né dagli enti consortili, la cui governance era nelle mani degli stessi comuni. La procura di Santa Maria Capua Vetere ci fornisce un quadro esaustivo di come si siano sviluppati nel corso del tempo i rapporti fra comuni e consorzi:
- un consorzio, pur consapevole di svolgere un pessimo servizio, addebitava un costo spesso gonfiato ai comuni;
- il consorzio si riteneva creditore di una somma in realtà mai entrata nella sua disponibilità (tra quote consortili e pagamenti del servizio effettuato), che dunque veniva contabilizzata in attivo e, conseguentemente, spesa;
- il comune cliente non si riconosceva debitore per quanto richiesto e non pagava il corrispettivo dei servizi (contestandone anche l’efficacia e rivolgendosi a terzi per la gestione ordinaria);
- le casse del consorzio restavano prive di liquidità e non riuscivano più a far fronte ai propri debiti (ad esempio manutenzione automezzi ed acquisto di carburante) contratti per garantire il già pessimo servizio prestato;
- come risultato finale si arrivava all’impossibilità di offrire un servizio conforme ai canoni della convenzione o persino l’impossibilità di garantirlo, con ulteriore reazione dei comuni;
- di conseguenza, si arrivava al dissesto dei consorzi.
L’interesse principale degli amministratori locali era la moltiplicazione di poltrone e il mantenimento del consenso dei cittadini, più che l’adempimento dei propri compiti.
Lo nota anche la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti della XVI legislatura.
Il sistema dei consorzi si è rivelato fallimentare. Essi hanno rappresentato esclusivamente uno strumento di moltiplicazione dei costi in materia di rifiuti, senza che a tale incremento sensibile dei costi sia corrisposto un servizio reso. Si è trattato di un sistema assurdo che si è retto fino a quando le risorse per il pagamento degli stipendi ai dipendenti sono state erogate dalle strutture commissariali; quando il flusso finanziario si è interrotto sono esplose le gravissime problematiche gestionali e la confusione amministrativa e finanziaria, finalizzata a rendere poco intellegibile la situazione di dissesto economico che si è avuto modo poi di registrare.
Diverse inchieste hanno poi messo in luce altri aspetti problematici di tale sistema, che si è rivelato permeabile a inflitrazioni della criminalità organizzata e a meccanismi correttivi. Alla luce di tutto ciò, a un certo punto i consorzi vennero messi in liquidazione e si cercarono alternative alla gestione dei rifiuti. Con un grosso ma: i lavoratori assunti dai consorzi.
La vicenda giudiziaria dei 72 lavoratori
Fino a che le strutture commissariali hanno erogato soldi, il sistema ha retto, seppur con grande fatica.
Quando i consorzi sono stati messi in liquidazione, invece, sono cominciati i veri problemi. Per i lavoratori, ovviamente. Quando il consorzio di cui stiamo parlando è posto in liquidazione, ai lavoratori viene comunicata la sospensione dell’attività lavorativa, senza garanzie sullo stipendio o su qualunque altra forma di sostegno al reddito, visto che non viene concessa neanche la cassa integrazione. Una scelta contro la quale i lavoratori, assunti a tempo indeterminato, reagivano con un ricorso cautelare contro il Consorzio e la provincia di Benevento. A essere contestata è la legittimità della sospensione dell’attività lavorativa, dunque i lavoratori chiedevano il ripristino del rapporto di lavoro, oltre che il pagamento di tutte le retribuzioni in sospeso.
Tenete in mente questo passaggio, perché sarà solo il primo di un vero e proprio calvario giudiziario.
Il giudice del Lavoro accoglieva la domanda cautelare, disponeva il ripristino dei rapporti lavorativi e condannava il Consorzio al pagamento anche delle differenze retributive. Fondamentale, per la decisione del Tribunale, è la constatazione del fatto che il Consorzio non si era mai opposto agli atti con i quali i singoli comuni avevano affidato la gestione dei servizi connessi ai rifiuti ad aziende private, non ottemperando agli obblighi di legge. In buona sostanza, la responsabilità del disastro dei conti era anche degli stessi Consorzi, che non avevano fatto nulla per tutelare la loro attività e dunque tecnicamente ora non poteva parlarsi di “impossibilità sopravvenuta” della prestazione.
Un’impostazione che il Tribunale di Benevento confermerà anche nel successivo giudizio di merito, rilevando “la mancanza di condizioni esoneratrici del pagamento delle retribuzioni in favore dei lavoratori”. Riepilogando: i lavoratori avrebbero dovuto essere reintegrati e ricevere gli stipendi arretrati.
Tutto risolto? Macché. Perché il Consorzio non ottemperava alle decisioni del Tribunale, non reintegrando né risarcendo i lavoratori. I quali erano nuovamente costretti ad adire le vie legali, con una serie di decreti ingiuntivi che cadevano nel vuoto.
A questo punto, il soggetto liquidatore del Consorzio avviava addirittura la procedura di licenziamento dei lavoratori. E di nuovo si tornava in Tribunale, con diverse sentenze che rilevavano l’illegitimità dei licenziamenti da parte del soggetto liquidatore, perché in violazione dei criteri di scelta del personale da collocare in mobilità. In questo caso, il Tribunale non riconosceva la reintegra, dal momento in cui l’attività del Consorzio risultava definitivamente cessata. Allo stesso tempo, però, il Consorzio veniva condannato al pagamento di ulteriori dodici mensilità a ogni lavoratore.
Passavano gli anni, ma nonostante la mole di sentenze, condanne e ingiunzioni, il soggetto liquidatore dei Consorzi non corrispondeva neanche un euro ai singoli lavoratori. A rendere ancora più paradossale la vicenda è il fatto che, per effetto del decreto legge n.90 del maggio 2008, non era possibile procedere al recupero delle somme dovute tramite pignoramenti. La questione finiva così al Consiglio di Stato, che interveniva con diverse sentenze. In primo luogo, ribadiva l’impignorabilità dei crediti del Consorzio, rendendo impossibile per un lavoratore agire individualmente per recuperare le spettanze. Successivamente, stabiliva che il Commissario ad acta nominato a capo dell’ente liquidatore del Consorzio avrebbe dovuto verificare “la sussistenza di fondi non vincolati” per coprire i debiti verso i lavoratori. Inutile precisare che, proprio a causa della situazione di cui vi abbiamo parlato, il Consorzio non ha mai avuto tale disponibilità. E, i lavoratori hanno continuato a non ricevere gli indennizzi statuiti dai tribunali.
La vicenda alla Corte Europea dei diritti dell'Uomo
Dopo aver tentato vanamente di vedersi riconosciuti crediti e diritti, malgrado sentenze e pronunciamenti degli organi di giustizia ordinaria, i lavoratori ricorrevano alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La prima sezione della CEDU si esprimeva con una decisione (n.39637), che rappresenta un tassello centrale della storia che vi stiamo raccontando.
La CEDU, infatti, prendeva atto della proposta del governo italiano di chiudere l’intera vertenza con una “dichiarazione unilaterale”. Senza indugiare in tecnicismi, essenzialmente il governo italiano riconosceva la fondatezza delle richieste dei lavoratori, impegnandosi a corrispondere loro il dovuto, in cambio della dismissione della procedura. La dichiarazione del governo, registrata dalla Corte nella decisione è la seguente:
“Il Governo italiano riconosce che i ricorrenti hanno subito le violazioni convenzionali di cui si parla, con riferimento ai principi espressi dalla corte dei diritti dell'uomo in tale contesto.
Il Governo, con la presente dichiarazione, offre a ciascun lavoratore la somma di 12.500 euro a titolo di risarcimento dell'eventuale danno non patrimoniale, e ulteriori 250 euro a copertura di eventuali spese, più eventuali imposte che potrebbero essere a carico del Richiedente su tali importi. Il Governo ritiene che la presente dichiarazione, contenente il riconoscimento delle violazioni di cui sopra e la previsione di un risarcimento, rappresenti un adeguato risarcimento, secondo la giurisprudenza della Corte in materia.
….
Il Governo procederà al pagamento delle somme offerte con la presente dichiarazione entro tre mesi dalla data di notifica della decisione adottata dal Tribunale di eliminare il caso dall’elenco. […] Inoltre, il Governo si impegna a garantire l'esecuzione delle sentenze italiane, entro lo stesso termine di tre mesi, e a pagare tutte le spese corrispettive. Il pagamento e l'esecuzione delle sentenze costituiranno la definitiva risoluzione del caso”.
In altri termini, non solo il governo si è impegnato a corrispondere un risarcimento relativo "all'equo processo", ma a garantire l'applicazione di tutte le sentenze emesse dai Tribunali italiani. I lavoratori avrebbero dunque dovuto ricevere entro tre mesi non solo l'indennizzo di 12.500 euro, ma tutti i crediti maturati e i danni accertati in sede giudiziaria. Parliamo di importi molto consistenti (ci sono lavoratori che avrebbero diritto a oltre 200mila euro), per i quali stavolta a impegnarsi esplicitamente, tramite la dichiarazione unilaterale, è proprio il governo italiano.
Ecco, per quanto strano possa sembrare, nemmeno questo è bastato. E i lavoratori continuano a non ricevere il dovuto. Malgrado sentenze favorevoli in ogni grado di giudizio. Malgrado ingiunzioni di pagamento e indicazioni chiare dai Tribunali italiani. Malgrado l'impegno formale del governo italiano davanti alla Corte Europea dei diritti dell'Uomo. Malgrado fitti carteggi fra gli avvocati e gli uffici "teoricamente" preposti ad adempiere agli impegni presi. Sembra incredibile, è la realtà per (almeno) 72 famiglie.