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Opinioni

La storia di Seid (e tutti gli altri): invettiva contro chi sceglie sempre la tesi che li giustifica

Fateci caso: di fronte a storie con connotazioni di razzismo, o di violenza verbale, c’è sempre una massa di persone disposte a credere alla tesi opposta, anche se questa non trova nessun fondamento né riscontro. La verità è che ci sono persone disposte a credere a qualunque cosa, pur di continuare a vivere le proprie miserie quotidiane pensando che gli altri siano come loro.
A cura di Saverio Tommasi
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Io la chiamo "l'insopportabile voglia di credere sempre a chi in qualche modo ci deresponsabilizza", cioè a chi ci toglie le castagne dal fuoco della coscienza.

Tre esempi.

Seid Visin si è tolto la vita, ed è uscita una sua lettera – lucidissima, consegnata agli amici – di appena due anni fa (un tempo minimo rispetto al gesto compiuto), in cui parla apertamente di razzismo e in generale di un clima d'odio intorno al colore della sua pelle. Se non vivete in un eremo ve ne sarete accorti: battute sui neri, commenti sui neri, lotta senza quartiere nei confronti di chi ha un colore della pelle diverso dal rosa pallido, avvengono ogni giorno in ogni strada d'Italia. Contemporaneamente qualcuno intervista il padre di Seid Visin – nel momento di massima distruzione dal dolore, e anche sui tempi di certe interviste sarebbe necessario aprire una riflessione – e dichiara "non date la colpa al razzismo, non c'entra con il suo gesto". E a quel punto una parte di italiani sono contenti che lo abbia detto, esultano, così si sentono chiamati fuori dalla causa e gioiscono.
La verità è che nessuno può conoscere tutte le cause che hanno portato Seid Visin al suicidio, ma è altrettanto innegabile che escludere proprio quella che lui denunciava pubblicamente come fonte di dolore estremo, sia quanto meno sciocco e deresponsabilizzante in modo assurdo.

Secondo esempio: Malika Chalhy, la ragazza cacciata di casa perché lesbica. La storia viene raccontata da Fanpage.it, gli audio che Malika ci fa ascoltare, audio che le ha mandato sua madre – e che noi pubblichiamo – sono di una ferocia disarmante. Il racconto di Malika pure. La storia viene confermata da ogni fonte e ripresa poi da ogni tv e giornale. La raccolta fondi lanciata per lei dalla cugina va benissimo e a quel punto qualcuno decide di dare credito al fratello che dice "lo ha fatto per soldi". E dietro quella frase – che pure non trova conferma alcuna nei fatti – inizia a nascondersi metà Italia e a usarla come una spada. Perché lo fanno? Perché li deresponsabilizza dall'idea di vivere in un Paese che nutre – anche per colpa loro – linguaggi di odio ed esclusione.

Terzo esempio, quello dei migranti. Nessun rappresentante di nessuna delle ONG che da anni salvano persone in mezzo al mare, è stata mai giudicata colpevole di un qualsiasi reato. Soltanto un'attenzione giudiziaria enorme e aperture di indagini continue, sempre risolte in colossali nulla di fatto. Eppure a ogni nuova, minima indagine, c'è chi salta in piedi urlando "avete visto? Ve l'avevamo detto", come se tra l'altro un'eventuale condanna di un barelliere potesse mai mettere in crisi la necessità di un impianto di ambulanze nel mare.

Io penso questo: c'è chi il male lo procura e c'è chi lo tace, procurandolo a sua volta e dando credito a tesi senza conferme, palesemente distanti dalla realtà, soltanto per il gusto di dire la parola contraria, anche se questa alimenta un pregiudizio. Ci sono persone disposte a credere a qualunque cosa, pur di continuare a vivere le proprie miserie quotidiane pensando che gli altri siano come loro.

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Sono giornalista e video reporter. Realizzo reportage e documentari in forma breve, in Italia e all'estero. Scrivo libri, quando capita. Il più recente è "Siate ribelli. Praticate gentilezza". Ho sposato Fanpage.it, ed è un matrimonio felice. Racconto storie di umanità varia, mi piace incrociare le fragilità umane, senza pietismo e ribaltando il tavolo degli stereotipi. Per farlo uso le parole e le immagini. Mi nutro di video e respiro. Tutti i miei video li trovate sul canale Youmedia personale.
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