Non ci interessa, non ora, una valutazione di merito sul pensiero della Thatcher. Su quell'insieme di teorie e prassi consolidate che furono alla base del suo agire politico, premiato e bocciato ad un tempo dalla storia. Ma il suo lascito è innegabile ed il suo pensiero, al netto delle decontestualizzazioni, offre spunti di incredibile valore. Perché la sua presenza ha nei fatti caratterizzato un'epoca, lasciandoci in dote una società radicalmente diversa. Resa diversa nel cuore e nell'anima, proprio dall'economia, traslando una delle sue considerazioni divenute celebri: "L'economia è il mezzo, l'obiettivo è quello di cambiare il cuore e l'anima". Ed è ciò che in molti le rimproverano. Aver contribuito a cambiare forse per sempre (e certamente non da sola) l'orizzonte ideale di milioni di persone, per il tramite del primato del mercato, della meritocrazia che diviene arrivismo, della ricerca del successo, della vittoria ad ogni costo. Non si tratta tanto di rintracciare nel pensiero di Margaret Thatcher quell'individualismo di matrice liberista che ha portato alla dissoluzione di concetti antichi e radicati nella coscienza occidentale da secoli, ma di comprendere fino in fondo la gerarchia valoriale del "migliore dei mondi possibili" da lei immaginato. Quello di chi "non conosce il significato della parola sconfitta"; di chi "sa quello che deve essere fatto e lo fa"; di chi "considera l'inattività un male e predilige l'azione"; di chi sa che "le cose si conquistano"; di chi "ama essere al centro delle cose" e "sa di meritarsi il successo che ha ottenuto"; di chi si batte "solo ed esclusivamente per vincere"; di chi pensa che "non conta altro che il risultato finale".
È quel suo "la vera società non esiste" in fondo, ad aver trionfato. Non tanto per i suoi risvolti in chiave economico – politico (come evidente contrapposizione alla lettura "classista" della società e a tante argomentazioni di matrice marxista), quanto per la frattura profonda che ha generato ad ampio raggio nelle coscienze individuali. E che trova un (per certi versi drammatico) riscontro nei cambiamenti radicali in quella società intesa come comunanza di "intenti e sentimenti", come legame profondo fra gli individui che si nutre di concetti come solidarietà, tolleranza, rispetto. Un processo irreversibile, forse. Che trova in quel "dovere di badare a noi stessi e poi, prendersi cura del prossimo" una summa eloquente. E spiazzante. Perché non si tratta tanto di riconoscere il primato dell'io individuale nel gigantesco frullatore di esistenze, tutte diverse e tutte uguali fra loro, chiamato società. Si tratta di capovolgere completamente il paradigma e staccare i bisogni singoli dall'interesse generale. È già avvenuto, certo. E per il tramite del sistema economico forgiato da thatcherismo e reaganesimo, anche. Che dovrebbe spingerci a domande di senso, non solo sul passato, non solo di ciò che "sarebbe potuto essere e non è stato. Ma sul futuro che abbiamo in mente. Come individui, certo.