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Opinioni

La scelta di Renzi (che ha salvato Governo e Pd)

A mesi di distanza e nell’avvicinarsi dell’appuntamento del 25 maggio appare sempre più chiara la decisione di Renzi di prendere in mano le redini dell’esecutivo: c’era un partito da salvare e una “minaccia” da scongiurare.
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Nei giorni in cui andava maturando la "staffetta" a Palazzo Chigi, erano in molti a sollevare perplessità e dubbi su quella che appariva davvero come una "scelta da prima Repubblica", una mossa più da democristiano vecchio stampo che da innovatore della politica. Le domande erano sostanzialmente le stesse: chi glielo ha fatto fare? Perché defenestrare Letta per governare con la stessa maggioranza e gli stessi uomini? Davvero si può pensare di fidarsi di Berlusconi? Come si può pensare di cambiare marcia con la stessa squadra di Governo che sosteneva Letta e con margini di manovra ridotti all'osso? Perché recedere dalla promessa di passare per una legittimazione popolare?

Le risposte che erano arrivate rimandavano sostanzialmente alla necessità di "uscire dal pantano", di "fare le riforme con un nuovo patto trasversale", di ridare nuova linfa ad un esecutivo che sembrava precipitato in una fase di stallo, tra veti incrociati e limiti di autorevolezza e proposta politica (anche a prescindere dall'operato di Letta). Il punto era capire che prospettiva avesse una mossa di questo tipo e quale potesse essere lo scenario a brevissimo termine, anche in considerazione del fatto che l'appuntamento elettorale delle Europee si sarebbe trasformato in un "referendum sulla gestione della crisi".

Ecco, a distanza di qualche mese non è difficile immaginare cosa sarebbe successo se Renzi fosse arrivato alle Europee da segretario democratico “costretto a sopportare” Letta alla guida di un Governo fragile ed incerto. E non è arduo ipotizzare quale sarebbe stata la tendenza della campagna elettorale "senza" quei provvedimenti sui quali Renzi sta fondando la sua comunicazione (e che indubbiamente sono frutto di una precisa volontà politica). Così come, con buona approssimazione, non appare irrealistico pensare che senza la svolta di febbraio il Partito Democratico avrebbe incontrato enormi difficoltà a presentarsi alla verifica elettorale di maggio, proprio in considerazione dell'incongruenza del doppio binario sul quale si sarebbe dovuto muovere Renzi (sostegno a Letta e distinguo su alcune scelte, brodini caldi sui temi economici e compromessi al ribasso con le altre anime della maggioranza). Come scrivemmo allora: "Quali provvedimenti avrebbe potuto “orientare” Renzi dalla scomoda posizione di segretario del principale partito della maggioranza senza riferimenti interni all’esecutivo? E in caso di debacle del Pd perché avrebbe dovuto pagare colpe sostanzialmente non sue?"

Insomma, Renzi aveva bisogno di correre, di invertire la rotta e di chiudere la fase di transizione apertasi dopo il flop delle politiche di febbraio 2013. Aveva bisogno di eliminare il dualismo con Letta e allo stesso tempo di legare compiutamente il destino del Partito Democratico a quello del Governo. Un esecutivo che del resto appariva dilaniato da tensioni interne, spinte centrifughe e soprattutto dall'inquietudine dettata dall'assenza di una prospettiva di ampio respiro (con i gruppi di maggioranza per nulla "rassicurati" dalla impossibilità di un ritorno alle urne determinato dalla mancanza di una legge elettorale "adeguata"); mentre il Partito Democratico soffriva della dicotomia fra il segretario ed il Presidente del Consiglio, che esasperava frammentazione e personalismi. Un dualismo che sembrava destinato ad esasperarsi, soprattutto se Letta avesse avuto la possibilità di rafforzare la propria posizione con le nomine delle partecipate e con la presenza ai vertici internazionali in agenda nel periodo pre – elettorale.

Così si spiega lo strappo di Renzi. E al netto di ogni valutazione di carattere politico lo scenario pochi mesi dopo riflette il percorso immaginato da Renzi, che è riuscito a mettere una serie di tasselli nella muragli anti – M5S (vedremo con che risultati, ovviamente). Tasselli ricavati da provvedimenti governativi e da scelte comunicative, da misure di carattere economico a scelte di indirizzo, dall'ampliamento della sua personale sfera di influenza al silenziamento (o quasi) del dissenso interno al Partito. Certo, non sono mancati i passi falsi, i rallentamenti e gli intoppi nel percorso, ma tutto sommato fanno parte del gioco (e in alcuni casi erano prevedibili / auspicabili, si veda la questione delle riforme istituzionali). Così come fanno parte del gioco la polemica continua con il Movimento 5 Stelle e la polarizzazione dello scontro (con buona pace dei partiti "minori", in maggioranza e all'opposizione). E infine, fa parte del cambio di marcia renziano anche il modo in cui è cambiato il "racconto dei media", con l'innegabile risalto che è stato dato ad alcuni aspetti (considerati) peculiari e con l'accentuazione del "racconto personale", del carattere messianico degli interventi di Renzi, che ha provocato un vero cortocircuito con continue (paradossali) contrapposizioni. Così il fact checking è diventato materia di dibattito politico, le critiche nel merito dei provvedimenti sono assurte a scelte di campo e via discorrendo.

Perché non è chiaro se questa sia “la volta buona”, ma sicuramente è “la volta di Renzi”. Questo esecutivo, che deve tutto alla scelta di Renzi, farà da cornice al suo “one man show”. E il Pd ne trarrà benefici o conseguenze.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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