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La Russa spiega perché non si definisce antifascista: “Non sono una scimmia ammaestrata”

“Non accetto di rispondere come una scimmietta ammaestrata. Servo la Costituzione, non le ideologie degli anni Settanta”. È la risposta di Ignazio La Russa a chi gli chiede perché non accetta di definirsi antifascista. Il presidente del Senato è poi tornato sull’inchiesta di Fanpage.it. “I ragazzi di Gn hanno sbagliato, così hanno offuscato la passione politica della maggioranza dei giovani militanti”.
A cura di Giulia Casula
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"Non accetto di rispondere come una scimmietta ammaestrata, oltre che per il ricordo degli anni Settanta". È così che Ignazio La Russa cerca di destreggiarsi davanti alle domande di chi gli chiede perché non accetta di definirsi antifascista.

Il presidente del Senato, intervistato dal Corriere della Sera, racconta che con gli anni 70, in particolare a partire dal 1968,  "arrivò la violenza dei cosiddetti nuovi partigiani, il loro slogan secondo cui ‘uccidere un fascista non è un reato'. Con loro non vorrò mai essere accomunato. E allora che iniziò l'antifascismo ideologico come viene inteso adesso", sostiene La Russa.

Il numero uno di Palazzo Madama, che ha sempre rivendicato fieramente di possedere i busti del Duce nella propria casa, dice di riconoscersi "nei valori della libertà, del rifiuto del razzismo e dell'antisemitismo, seguo i dettami della nostra Costituzione. Per difendere tutti i diritti garantiti dalla nostra Carta sarei pronto a dare la vita. Ho servito e servo La Costituzione: prima di essere presidente del Senato, sono stato anche ministro della Difesa. E di quel periodo rammento il reciproco rispetto con l'allora capo dello Stato Napolitano (Giorgio ndr.). Una cosa che mi onora", prosegue."Quando ero al governo una volta mi disse: "Ignazio vedo più volte te di mia moglie", ricorda ancora.

L'intervista parte dalla figura un episodio che lo vide coinvolto negli anni Novanta, quando propose di deporre dei fiori nel luogo in cui venne ucciso Mussolini, scatenando l'ira di di Pinuccio Tatarella, storico membro del Movimento sociale italiano, di cui pure La Russa faceva parte. "A suo giudizio nella nostra comune volontà di costruire una destra pluralista, moderna ed europea, non c'era più spazio non solo per il fascismo ma anche per gesti che richiamassero il passato. Tatarella aveva capito che, oltre la sostanza, bisognava cambiare anche le forme", spiega.

"Il primo a intuirlo in realtà era stato Giorgio Almirante, che negli anni Settanta aveva allargato l'Msi a personalità antifasciste. Ma non era bastato. Più tardi, sul finire degli anni Ottanta, Pinuccio contribuì a lanciare Gianfranco Fini alla guida del partito. E io ero schierato con lui. Non è stato un percorso facile e indolore", racconta. "Ecco perché sono stati sbagliati e dannosi i gesti di cui si sono resi responsabili quei ragazzi di Gioventù nazionale che hanno purtroppo offuscato la cristallina passione politica della maggioranza dei giovani militanti", dice ancora riferendosi all'inchiesta di Fanpage.it, Gioventù Meloniana, che ha rivelato l'atteggiamento antisemita e la cultura nazi-fascista della giovanile di Fratelli d'Italia.

Il presidente del Senato torna poi su "la storia della mia famiglia, dove mio padre era stato fascista e rimaneva legato al fascismo, anche se non ne immaginava minimamente una riproposizione. Mio fratello ha militato in un partito antifascista come la Democrazia cristiana, e io sono cresciuto avendo a cuore la libertà in tutte le sue declinazioni. È un valore che non ho mai dovuto elaborare perché non ho mai pensato diversamente. Ricordo le campagne elettorali di mio padre e il gusto della libertà che assaporavo", sostiene.

"Nel 1995 a Fiuggi facemmo i conti con il fascismo e fui tra i protagonisti di quella svolta. Ma il mio atteggiamento forse troppo benevolo verso il Ventennio era già mutato da tempo, fin dai 18 anni, dopo i miei studi all'estero dove avevo avuto amici di tutte le etnie e di tutte le religioni", racconta il cofondatore FdI. Secondo La Russa il "cambiamento" avvenne quando "mi resi conto delle leggi razziali. Da ragazzo non me ne aveva parlato quasi nessuno, lo ammetto. Poi in me scattò qualcosa, che fu amplificato dalla conoscenza della comunità ebraica, dalla partecipazione alla loro vita, alle loro cerimonie. Al loro dolore. E non fu un fatto episodico ma un processo", dice.

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