Il neo presidente del Senato Ignazio La Russa per difendere la scelta di allestire nella sede del Mise una mostra con le foto di tutti i ministri italiani dello Sviluppo economico, che include anche Benito Mussolini (ministro delle corporazioni nel 1932), ha chiamato in causa la cosiddetta ‘cancel culture’, letteralmente cultura della cancellazione.
Si tratta di una tendenza che si è andata affermando in questi anni negli Stati Uniti e in generale nel mondo anglosassone, esplosa soprattutto con il movimento femminista ‘#MeToo’, che ha lo scopo di denunciare, e in certi casi proprio mettere all’indice, personaggi, libri o opere d’arte, percepiti come lesivi dei diritti delle minoranze, perché apertamente razzisti o sessisti, o comunque discriminatori e lontani dal ‘politicamente corretto’. Una sorta di boicottaggio collettivo, figlio di una vera o presunta superiorità morale, che però non si accontenta di criticare un’opinione considerata offensiva o minacciosa per la società, ma punta a espellere il prodotto culturale o l’autore incriminato. Come? Esercitando una vera e propria pressione su aziende o centri di potere, per esempio istituzioni accademiche, per eliminarli, ‘cancellarli’ fisicamente appunto, sull’onda di una più o meno giusta indignazione di massa.
L'argomento è molto complesso, ma tutto questo, come è facile intuire, non ha nulla a che vedere con la questione della mostra al ministero guidato da Giorgetti, organizzata per i 90 anni di Palazzo Piacentini, inaugurato il 30 novembre 1932. La Russa ha dichiarato: “La foto di Mussolini al Mise? C'è anche al ministero della Difesa, c'è scritto anche al Foro Italico. Voglio dire, che facciamo cancel culture anche noi?”. L’esponente di Fratelli d'Italia fa una domanda provocatoria, provando, con un sapiente artificio retorico, a dimostrare che anche in questo caso si vorrebbe cancellare un pezzo di storia, con un atteggiamento intollerante. Niente di più lontano dalla realtà.
Quello che appare evidente è che la foto di Benito Mussolini, affissa (e poi rimossa dopo le polemiche) in una sala del palazzo storico nell’ambito di una serie di iniziative con chiaro intento celebrativo, è del tutto inappropriata. Non perché, come accusa maldestramente La Russa, si vorrebbe una cancellazione della storia nazionale o un appiattimento delle differenze culturali, o peggio perché si cerca di imbrigliare la libertà di pensiero, ma perché qualsiasi ricordo del Ventennio fascista non può prescindere da una sua corretta contestualizzazione e quindi da una netta condanna di colui che propose e sostenne le leggi razziali. Il fatto che l’immagine del Duce si trovi anche nella galleria dei ritratti dei presidenti del Consiglio a Palazzo Chigi o altrove, non è certo un’attenuante e non dà più forza a chi minimizza questa scelta infelice.
Esporre quella foto senza collocarla nel giusto alveo, senza ricordare gli orrori del fascismo, non è accettabile, e rischia di mettere sullo stesso livello un ministro dello Sviluppo economico come Pier Luigi Bersani (che infatti ha chiesto di rimuovere la sua foto) e un dittatore di un regime totalitario che prese il potere e lo consolidò con la violenza. Una mostra come quella del Mise non può insomma rischiare di diventare una manifestazione apologetica del fascismo. E cercare di mescolare le carte, come ha fatto La Russa, gridando ipocritamente alla censura, non è degno della seconda carica dello Stato.
Una riflessione a parte merita invece l'obelisco eretto nel 1932 davanti al complesso sportivo del Foro Italico a Roma. E anche qui La Russa fa confusione, tirando fuori una vecchia diatriba controversa e mai risolta. Più volte negli anni ci si è interrogati sull'opportunità o meno di abbattere il monumento. Sul punto anche la sinistra si divide: i più intransigenti vorrebbero la sua demolizione o almeno l'abrasione della scritta “Mussolini Dux”; ma c'è anche chi vede nell'eventuale cancellazione un segno di debolezza, un gesto superfluo in un Paese che ha una Costituzione dichiaratamente basata sui principi dell'antifascismo. È un tema che ciclicamente ritorna nel dibattito, e la questione è ancora aperta. Se un monumento o una statua hanno la funzione di ricordare una fase buia del nostro passato, se rimangono come traccia e testimonianza di un periodo drammatico del Paese – dopo averli opportunamente inquadrati ed eventualmente dopo aver attribuito loro un significato nuovo – ha senso distruggerli? A questo interrogativo ha dato una risposta esauriente lo storico Vittorio Vidotto, che in un'intervista rilasciata al Foglio nel 2020 ha detto:
Se si volesse demolire l’obelisco allora bisognerebbe demolire anche le statue dello Stadio dei marmi, del tennis, i mosaici della piscina, non si finirebbe più perché in ogni città d’Italia il fascismo ha lasciato segni profondi, ovunque. Il Foro italico è un complesso straordinario per capire come si autocelebravano i regimi.
In ogni caso non si può un giorno condannare il rastrellamento del Ghetto di Roma, ricordando le deportazioni del 16 ottobre 1943 attuate dalla “furia nazifascista”, dichiarando vicinanza alla comunità ebraica, e il giorno successivo mantenere un atteggiamento quantomeno ambiguo su una mostra commemorativa che ospita un ritratto di Mussolini. Soprattutto se a mantenere una posizione ambigua è una figura istituzionale che nel privato ama collezionare cimeli fascisti, e non ne fa mistero. Da presidente di Palazzo Madama, a maggior ragione, quest’ambivalenza non è ammissibile, come non è ammissibile giocare con le parole. Dire per esempio che “siamo tutti eredi del Duce” non è certamente un modo genuino di preservare la memoria storica del nostro Paese, ma ha il preciso obiettivo di strizzare l’occhio a una certa destra nostalgica. C’è una bella differenza.