Partiamo da un paio di assunti, fuori da ogni discussione: "l'abolizione del finanziamento pubblico nel 1993 resta un fatto del quale tenere conto e non si capisce in che misura un “risultato ottenuto sotto l'effetto di un clima avvelenato da Tangentopoli” possa inficiare il valore complessivo di un referendum popolare. Così come bisogna fare i conti con il “trucco” operato pochi mesi dopo, con l'aggiornamento della legge preesistente sui rimborsi elettorali, nonché con le successive modifiche che dapprima hanno abbassato all'1% la soglia minima di consenso elettorale per ottenere tali rimborsi (2002), successivamente ne hanno aumentato considerevolmente la consistenza nonché la “durata” (dal 2006 al 2011 l'erogazione dei fondi è stata mantenuta per tutti i 5 anni anche in caso di interruzione della Legislatura)".
In seconda battuta: il sistema del finanziamento pubblico ai partiti è condiviso, a livelli diversi, in tutte le democrazie occidentali (e non solo). Pochi giorni fa vi raccontavamo come funziona nel dettaglio, ma alla base resta una considerazione: i partiti devono essere al servizio di tutti i cittadini e la pratica politica non può essere subordinata alla possibilità economico – finanziaria dei cittadini. A maggior ragione in quelle democrazie, come la nostra, in cui il ruolo dei partiti è costituzionalmente definito (sul tema ci sarebbe da discutere, ovviamente).
Detto questo è evidente che la discussione sul finanziamento pubblico ai partiti abbia perso qualunque connotazione politica, per diventare ideologica, quasi il discrimine fra la vecchia politica "corrotta, sprecona ed escludente" e quella nuova, basata su trasparenza, partecipazione ed onestà. Tecnicamente una forzatura. Da un punto di vista concettuale una vera e propria sciocchezza. Dal lato politico, un pericolo. Il punto in effetti è questo: o passa l'idea che il finanziamento pubblico ai partiti sia direttamente collegato ad una certa pratica politica, oppure ci si interroga sul ruolo dei partiti in questo particolare momento storico.
Delle due l'una: o i partiti svolgono ancora una funzione essenziale per la nostra democrazia (e devono essere tutelati, anche economicamente), oppure la politica italiana, per come la conosciamo, ha bisogno di essere ripensata e ri-fondata. Un tema variamente dibattuto in questi giorni, purtroppo però sotto l'effetto di una poderosa campagna propagandistica guidata da Beppe Grillo, cui si sono piegati (più o meno volentieri) quasi tutti gli altri leader politici. Del resto, appare arduo sottrarsi completamente all'adesione ad un simile pensiero, dal momento che si tratterebbe di una scelta che definire impopolare è riduttivo. A pesare in maniera determinante sono scandali, inchieste e fallimenti che coinvolgono la classe dirigente dell'ultimo ventennio. Quella sorta dalle ceneri di Tangentopoli e che avrebbe dovuto segnare una discontinuità proprio in quel settore (la gestione della cosa pubblica) travolto dalle inchieste dei pm. Ma su questo meglio stendere un velo pietoso.
Rinunciare ai rimborsi, però, non preclude necessariamente alla "dittatura del privato". Non è in toto condivisibile l'idea che la politica, se non finanziata dal pubblico, debba necessariamente poggiarsi su (interessati) miliardari o (ancor più interessati) gruppi di potere. Basterebbe mettere un limite ai contributi "singoli", oppure operare uno stretto controllo sulle donazioni, o ancora rendere pubblico in che modo i partiti accedono alle risorse e come le distribuiscono. Anche perché, paradossalmente, non ci sembra davvero che tale sistema abbia tenuto lontane "aziende, miliardari e gruppi di potere dalla politica". Tutt'altro.
È invece l'idea che i partiti siano qualcosa di superabile, quasi un intralcio alla democrazia che non ci convince. Come la presunzione di chi ritiene di poter cancellare decenni di riflessioni e consuetudini condivise dalla totalità delle democrazie occidentali sull'onda emotiva di uno scandalo, di una inchiesta, di un voto che ha sancito il distacco fra questi partiti e questi cittadini. Perché la devianza rispetto alla norma non autorizza necessariamente a mettere in discussione la norma. E il fatto che ci sia chi si fa rimborsare persino la Nutella dovrebbe aprire una discussione non tanto sui soldi, ma sui partiti. Su chi li rappresenta e su chi li sostiene. Su chi doveva vigilare e non lo ha fatto. Su chi ha predicato trasparenza ed onestà solo sulla carta. Su chi dimentica i doveri di un rappresentante dei cittadini e ricorda solo i suoi diritti.
Insomma, che la politica abbia bisogno di un ripensamento complessivo è fuori discussione. Che i partiti abbiano esaurito il loro compito, però, è tutto da dimostrare. Certo, a "questi" partiti non basterà nemmeno rinunciare ai rimborsi elettorali per recuperare la credibilità persa negli anni. Anzi, il rischio è proprio quello: che si rinunci ad un meccanismo che "almeno teoricamente" rappresenta una garanzia per i cittadini, senza cambiare radicalmente la pratica politica. Come un alcolista che rinuncia alle sigarette, in pratica.