C'è una parola ricorrente in tutte le celebrazioni di fine anno. C'è una parola ricorrente in ogni campagna elettorale. C'è una parola ricorrente in ogni apparizione pubblica di un rappresentante delle istituzioni. La parola "speranza". Confortevole, rassicurante e in grado di alleviare fastidi e sofferenze e allo stesso tempo di distogliere l'attenzione da un presente insoddisfacente, proiettando il pensiero in un futuro indefinito. Talmente abusata da essere diventata addirittura un "punto programmatico" di ogni movimento politico: restituire speranza ai cittadini. Come se bastasse, come se un mutamento di prospettiva, una disposizione d'animo potesse cambiare concretamente la vita di milioni di italiani. E, del resto, nessuno sarebbe in grado di immaginare un futuro senza speranza, per citare Lowith:
"Essa è un male che sembra tuttavia buono, perché la speranza induce sempre ad attendere qualcosa di meglio. Eppure sembra vano aspettarsi un futuro migliore, perché difficilmente si dà un futuro che, quando diviene attuale, non deluda le nostre speranze"
Ed è per questo che, con alle spalle l'ennesimo annus horribilis della politica italiana, forse converrebbe concentrarsi su altri "concetti". Più che speranza, forse sarebbe lecito chiedere ai nostri rappresentanti chiarezza e trasparenza. Chiarezza nelle scelte, prima di tutto. A maggior ragione con la prospettiva di elezioni politiche "non risolutive" e con il terrore di altri 5 anni di inciuci e compromessi. Perché i disastri del trasformismo e dei compromessi al ribasso sono sotto gli occhi di tutti, mentre il berlusconismo e gli apprendisti stregoni delle alchimie e delle tattiche hanno lasciato solo macerie. Chiarezza nella comunicazione, senza giri di parole e soprattutto senza nascondere la "verità" agli italiani: basta menzogne, basta facili promesse, solo crudo realismo. Chiarezza negli obiettivi da raggiungere, senza retorica o demagogia. Perché l'asticella della decenza è scesa fin troppo e tra "populismi ed isterismi", la logica del meno peggio non può essere l'unico discrimine. Non deve esserlo.
La trasparenza, la casa di vetro e altre "cose che dovremmo pretendere". Lo spettacolo indegno della politica italiana, a livello centrale e territoriale, è un problema che investe ogni cittadino. Non solo perché corruzione, arroganza e impreparazione bruciano miliardi di euro ogni anno. Ma perché in gioco vi è l'idea di Paese che abbiamo in mente. Un Paese in cui i cittadini non firmano deleghe in bianco ai rappresentanti, ma li accompagnano in ogni "atto" dell'azione politica, in uno scambio continuo e reciproco. Un Paese in cui non ci sia nulla di "nascosto" agli occhi dell'opinione pubblica, senza zone d'ombra o macchie grigie. E non si tratta solo di una mera questione "amministrativa", non è solo i conti che ci interessano: è un mutamento radicale di prospettiva. La politica siamo noi. E non può esserci partecipazione attiva senza conoscenza degli attori e delle forze in gioco. E più che sperare, sarebbe ora di agire in tal senso. Perché la politica è nostra. Tocca rassegnarsi.