Come se non fosse abbastanza evidente la scarsa considerazione che questo Governo ha della classe politica italiana (da cui almeno tecnicamente dipende), ecco arrivare altre, dolorose, conferme. A partire dall'ennesimo ricorso al voto di fiducia, strumento utilizzato con una frequenza imbarazzante da questo esecutivo, per di più condito dal solito disarmante "assenteismo" di ministri e sottosegretari. Una testimonianza del fastidio con cui, al di là delle dichiarazioni ufficiali e delle consultazioni in via informale, l'esecutivo si interfaccia con il Parlamento, ormai ridotto a simulacro della rappresentanza e, che possa piacere o meno, ad un sostanziale compito di ratifica di decisioni prese in altre sedi. Una rappresentazione sulla quale si innestano con poca fatica alcune dichiarazioni di autorevoli esponenti del Governo, da ultima quella del ministro della Cooperazione Andrea Riccardi che ha senza troppi giri di parole commentato così la "decisione" di Angelino Alfano di evitare il vertice con Monti su Rai e giustizia: "Vuole strumentalizzare ed è la cosa che mi fa più schifo della politica, ma quei tempi sono finiti". Considerazioni a voce alta che hanno immediatamente messo in moto la macchina dell'indignazione della politica nostrana, con la raccolta di firme sulla mozione di sfiducia promossa dall'ex Guardasigilli Nitto Palma cui hanno aderito una cinquantina di parlamentari e con alcune risposte al veleno dei big del (fu) centrodestra. Last but not least, la "battuta di spirito" di Mario Monti da Belgrado: "Il fatto è che si restringe lo spread, l'auspicio è che restringendosi questo spread non si allarghi lo spread tra i partiti politici che sostengono la maggioranza. Altrimenti ci sarebbe un prematuro intralcio alle politiche di risanamento di bilancio e al rilancio".
Il compito dei tecnici ed i limiti di un progetto – Ma in realtà non c'è neanche tanto da sorprendersi, dal momento che fin dall'inizio Mario Monti ha caratterizzato il suo "intervento necessario" come una supplenza per incapacità manifesta della politica e del precedente Governo, trovando il consenso di larga parte degli italiani (e i sondaggi ne danno ampia conferma) e la legittimazione internazionale (con l'appoggio scontato e decisivo della Banca Centrale Europea e dei vertici della Commissione). E che questa classe politica si sia rivelata in larga misura impreparata ed impotente, incapace di fronteggiare la crisi e al tempo stesso di impedire la lenta ma inesorabile "lacerazione del tessuto sociale del Paese" è ormai praticamente un dato di fatto. Ma a questo punto occorre evidentemente fermarsi e riflettere. Perchè se la diagnosi sembra francamente condivisibile, la cura ancorchè efficace per quel che concerne l'immediato (crisi economica e stallo istituzionale), potrebbe avere degli effetti collaterali devastanti sul lungo periodo. In poche parole e senza girarci troppo intorno: fino a che punto è accettabile che il "momento" gestionale e amministrativo prescinda da valutazioni di carattere eminentemente politico? Che senso hanno nell'era dei tecnici concetti come rappresentanza e tutela? E' pensabile un ragionamento di lungo corso privo di qualsivoglia impostazione "ideologica" ben definita e delineata? E siamo sicuri che la guerra senza quartiere ai partiti e alla politica porterà all'allargamento degli spazi di democrazia e non invece ad una chiusura nel segno della conservazione e del decisionismo? E' una sorta di "bonapartismo" in forma riveduta e corretta la formula adatta per guidare un Paese in "eterna fase di transizione"? Ed è davvero necessario andare oltre la "democrazia dei partiti" (certo, a patto del compimento di quel "risanamento interno" che appare prioritario)? Domande che sinceramente ci lasciano quantomeno perplessi e con le quali occorrerà fare i conti a breve, crisi o non crisi. Ne va del futuro stesso della nostra democrazia.