La citazione è tanto abusata quanto calzante, perché davvero per tanti di noi questa sembra essere destinata a diventare la peggior campagna elettorale cui si sia mai assistito. Gli ingredienti per il capolavoro ci sono tutti, a cominciare dalle tempistiche: poco meno di due mesi di campagna, per giunta in piena estate, con la necessità di bruciare i tempi e non andare troppo per il sottile per quel che concerne candidature, programmi e comunicazione. In una fase emergenziale, ma al tempo stesso cruciale (grazie ai fondi del Pnrr), sappiamo cosa sarebbe servito al Paese: un momento di confronto e scontro fra idee diverse, fra proposte alternative, in grado di ampliare la partecipazione al processo democratico dei cittadini e di riavvicinare le giovani generazioni alla cosa pubblica. Dopo la pandemia, in piena crisi climatica e in mezzo a un conflitto che rischia di ridisegnare il mondo, sarebbe servito un confronto vero su come immaginiamo il vivere collettivo, il futuro della società e i limiti del nostro contributo.
Stiamo andando nella direzione opposta, al punto che non è arduo ipotizzare che disaffezione e astensionismo saranno al centro delle analisi post-voto. Coalizioni litigiose o già impegnate nella spartizione delle spoglie, leader inadeguati o troppo compromessi, programmi raffazzonati e promesse riciclate: ragioni deboli produrranno risposte deboli.
La crisi di governo, per come è arrivata, per come è stata gestita e per l'epilogo che ha avuto, ci dice molto di quello che ci aspetta nelle prossime settimane. Cominciamo col dissipare un dubbio: capisco sia molto più facile dire che la crisi sia stata causata da Putin o dai grillini irresponsabili, o da entrambi, ma in realtà, chi si occupa di politica per lavoro potrà confermare che da mesi c’erano chiari segnali di cosa sarebbe successo. I più pessimisti erano politici e addetti ai lavori del Pd, che per settimane ci hanno ripetuto più o meno la stessa considerazione: a settembre salta tutto. Non si trattava di un pensiero isolato, praticamente tutti erano convinti che la maggioranza non potesse arrivare a fine legislatura (e qualcuno lo aveva detto anche esplicitamente).
Tre erano i principali elementi di instabilità della maggioranza: il Movimento 5 stelle, la destra e Mario Draghi.
Nelle sue interlocuzioni con Letta, Conte gli aveva più volte fatto capire di essere nella condizione di non controllare più i propri parlamentari, specie dopo la scissione di Di Maio. L’ex Presidente del Consiglio si era lamentato della marginalizzazione delle istanze grilline e del fatto che Draghi, dopo la batosta del Quirinale, avesse cominciato a governare praticamente da solo, con l’appoggio di un ristretto gruppo di ministri. La scelta di sostenere il governo, voluta principalmente da Grillo ma osteggiata dalla maggioranza di iscritti ed eletti, già gli stava costando moltissimo, non era complicato pensare che si potesse arrivare presto a un punto di rottura. Anche perché Draghi non avrebbe mai potuto accettare ricatti o imposizioni, figurarsi da chi gli aveva impedito di andare al Quirinale, costringendolo a restare a Palazzo Chigi.
Dall'altra parte, la situazione non era molto dissimile: Matteo Salvini aveva la necessità di svincolarsi dall'abbraccio mortale delle larghe intese, per provare a fermare l'emorragia di consensi verso Fratelli d'Italia; Silvio Berlusconi non aspettava che l'occasione per tornare ad avere un minimo di peso politico; Giorgia Meloni non vedeva l'ora di capitalizzare il consenso che emergeva dai sondaggi.
La gestione goffa e contraddittoria di Giuseppe Conte ha dato il via al domino: le tessere sono cadute una dopo l'altra senza resistenza alcuna, se si eccettua il disperato tentativo di qualche centrista di guadagnare un paio di mesi. È emersa in maniera piuttosto chiara che la volontà di quasi tutti i leader di partito fosse quella di mettere fine all'esperienza del governo Draghi. Per ragioni diverse, ognuno aveva interesse ad andare al voto il prima possibile.
Paradossalmente, però, nonostante tutti conoscessero quanto alto fosse il rischio di elezioni anticipate, quasi nessuno si era davvero preparato. Il centrosinistra ha visto saltare un lavoro di anni di costruzione del campo largo con annessa incorporazione del M5s nell'area progressista e ambientalista; il centrodestra si è trovato nella condizione di dover accelerare la ricomposizione di tutte le fratture apertesi negli ultimi anni di separazione non sempre consensuale. Non è un caso che, a meno di due mesi dal voto delle politiche, non abbiamo ancora chiaro il quadro delle alleanze e non abbiamo visto neanche un programma elettorale. Sappiamo solo chi vincerà le elezioni.
La campagna elettorale del centrodestra
È il punto centrale: tutti sappiamo come finirà questa consultazione elettorale, con la vittoria della coalizione di centrodestra e l'indicazione di Giorgia Meloni quale nome per la guida del Paese. Ci sono alcune incognite, certo, tra cui la portata del successo e la definizioni degli equilibri interni alle coalizioni, ma l'epilogo sembra segnato. Al punto da spingere partiti deboli e leader dal destino segnato a dare il peggio in campagna elettorale.
Cominciamo dalla Lega. Salvini ha approfittato del mezzo regalo di Conte per lasciare il governo delle larghe intese, che non solo gli aveva fatto perdere consensi nel Paese, ma stava anche rafforzando la posizione dei suoi nemici interni al Carroccio. È più forte nel partito, ma deve recuperare voti per provare a finire davanti a Giorgia Meloni il 25 settembre: operazione difficile, che il leader leghista intende perseguire sfruttando al massimo il suo repertorio di lungo corso. È già andato a Lampedusa, ha già litigato con artisti di sinistra, ha già proposto il servizio militare per i giovani (o di non dare la patente ai membri delle baby-gang…), ha già dimenticato di aver votato 55 volte la fiducia al governo Draghi e di aver sostenuto i provvedimenti della ministra Lamorgese, che sta cercando di far diventare la nuova Elsa Fornero, bersaglio principale nella propaganda leghista.
Giorgia Meloni ha il problema opposto: non deve guadagnare consenso, deve fare meno danni possibili nelle prossime settimane. I toni concilianti e moderati che sta usando, unitamente alla grande attenzione a punti cruciali del programma, hanno lo scopo di evitare scivoloni e allo stesso tempo accreditarsi come legittima pretendente alla poltrona di Palazzo Chigi. L'insidia maggiore, però, ce l'ha in casa. Non solo deve stare attenta ai tanti che cercheranno di salire sul carro che sembra vincente, ma deve anche preoccuparsi di quello che faranno, come lo faranno e dove lo faranno i candidati che Fratelli d'Italia proverà a far eleggere. Non è un problema da poco, considerato che nelle fila del suo partito abbondano nostalgici e revisionisti. Sull'Ucraina la linea è stata chiara e chiarita più volte (con buona pace dei filorussi), su vaccini, diritti civili e questioni non di poco conto, c'è ancora tanto da lavorare. Nel frattempo, l'immancabile vittimismo da sindrome del complotto ci ha già regalato qualche perla: una giornalista censurata per una mezza battuta, accuse generiche e confuse ai mezzi di informazione, ipotesi di sabotaggio buttate lì un po' a caso.
Silvio Berlusconi meriterebbe una trattazione a parte. Dopo aver contribuito a mandare a casa Draghi, provando a dargliene la colpa, il Cavaliere ha rispolverato un classico del suo repertorio: when in trouble go big. Ne sta dicendo di ogni, letteralmente: si è attribuito il merito del Pnrr, ha negato di aver contribuito a buttare giù Draghi, ha promesso mille euro al mese come pensione minima e un milione di alberi, ha liquidato in malo modo i suoi figliocci Brunetta, Gelmini e Carfagna. È solo l’antipasto, possiamo immaginare quali mirabolanti uscite ci riserverà quando la campagna elettorale entrerà nel vivo.
Perché una coalizione che sembra avere un così grande vantaggio sta impostando questo tipo di campagna elettorale? Semplicemente perché un approccio di questo tipo consente di eludere questioni molto rilevanti, su cui il centrodestra è diviso, anzi lacerato. Su tutte, c’è la gestione della guerra in Ucraina: Meloni si sta affannando a rassicurare sulla collocazione atlantista, ma sono ancora molte le perplessità degli osservatori internazionali per i rapporti personali e politici dei suoi due alleati con Putin e le alte sfere del Cremlino. Non c’è solo “l’amico Silvio”, ma anche l’alleanza programmatica fra Lega e Russia Unita, oltre che i trascorsi dei suoi alleati e tanti dubbi ancora da dissipare.
Poi ci sarebbe da capire, per esempio sulla pandemia, come conciliare la linea di Ronzulli (“i voti dei no-vax mi fanno schifo”) con quella di parte consistente del resto della coalizione, che chiede commissioni d’inchiesta sugli eventi avversi, che detesta il green pass e che è pronta a giurare che non ci saranno mai più restrizioni. Infine, come se fosse meno importante, Meloni riuscirà a tenere a bada l'aggressività della Lega e di Forza Italia su fronte pensioni e flat tax? Il programma comune doveva essere pronto dieci giorni fa, per ora tutto tace.
La campagna elettorale del centrosinistra, della sinistra o di quello che ne resterà
Se da destra il meglio deve ancora venire, nel centrosinistra siamo in pieno psicodramma. Anche avendone il tempo e la pazienza, non riusciremmo a riassumere con precisione quello che sta accadendo prima ancora della formazione di una specie di coalizione: veti incrociati, trattative, incontri, ultimatum, litigi, rappacificazione e ancora scontri. Tutto alla luce del sole, sulle prime pagine dei giornali, nei programmi di approfondimento e ovviamente su Twitter. Nel momento in cui scriviamo questo pezzo, pare che si stia andando verso una configurazione che prevede un’alleanza elettorale fra il Partito democratico (che già aveva stretto un patto con Mdp-Articolo Uno e altri soggetti del mondo dell’associazionismo), Sinistra Italiana – Europa Verde, +Europa e Impegno Civico. Azione di Carlo Calenda, invece, avrebbe scelto un’altra strada, dopo giorni piuttosto confusi, per usare un eufemismo.
Sulla campagna elettorale del Pd pesa in modo decisivo la rottura dell’asse con Giuseppe Conte, determinatasi in seguito alla decisione del Movimento 5 stelle di non votare per la cinquantaquattresima volta la fiducia al governo Draghi. Uno strappo che i democratici hanno giudicato non più ricucibile, parlando addirittura di tradimento dell’Italia e stracciando una piattaforma programmatico-politica cui lavoravano da due anni. In nome di Draghi e della sua agenda, Letta si è trovato a dover costruire una nuova alleanza elettorale, che potesse in qualche modo essere competitiva con la destra di Meloni, Salvini e Berlusconi. Ha commesso errori strategici e forzature, probabilmente, ma ha dimostrato pazienza e vocazione al sacrificio, mettendo sempre a disposizione dell’alleanza i seggi e i voti del Partito democratico (la composizione delle liste sarà un bagno di sangue). Si è immolato per Calenda, convinto che i suoi voti potessero "riaprire la partita", per poi trovarsi solo con +Europa, di cui ora non conosciamo la reale forza elettorale. Il risultato finale non è quello sperato, non è un campo larghissimo, nemmeno largo e l’obiettivo non è più contendere a Meloni la guida del Paese, ma impedire che la destra stravinca al punto da poter cambiare autonomamente la Costituzione. La salvezza della Carta, però, non vale un ripensamento coi Cinque stelle: l'ennesima contraddizione di una campagna che parte in salita.
Per semplificare, i democratici dovranno fare una campagna a tappeto contro quella che definiscono "la peggior destra d'Europa", senza poter contare su una coalizione unita da una piattaforma programmatica di ampio respiro, senza una strategia vera per poter governare il Paese, ambendo come obiettivo massimo al "far non vincere o far vincere di poco Giorgia Meloni". Non proprio le premesse giuste per far entusiasmare le masse, diciamo.
Anche perché la copertura a sinistra dell'alleanza già scricchiola. Europa Verde e Sinistra Italiana escono lacerate dalla trattativa che ha portato all'accordo con il Partito democratico: certo, hanno guadagnato qualche seggio, garantendo rappresentanza a istanze che a un certo punto rischiavano davvero di essere fuori dal Parlamento per un'intera legislatura, ma pagando un prezzo altissimo con le loro basi elettorali. È complicato rivendicare purezza e integrità mentre stringi un patto con chi fino a poche ore prima era schienato sulla fantomatica "agenda Draghi" e pronto a convolare a nozze con liberali e riformisti. E la concorrenza sul bacino elettorale a sinistra è piuttosto agguerrita.
C'è Unione Popolare, creatura che comprende un insieme di sigle guidate dall'ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris e che in questi giorni è impegnata nella raccolta delle firme. Forza dichiaratamente anti-sistema, che mira a dare una voce a "chi non è rappresentato", con una posizione di rottura sulla guerra in Ucraina ("no alle guerre della Russia, no alle guerre della Nato", slogan che però non aiuta a capire come si orienterebbero nel conflitto in corso), l'obiettivo è quello di raggiungere il 3% necessario a entrare in Parlamento, il rischio quello di disperdere consenso. La strategia iniziale, infatti, contemplava la possibilità del dialogo coi Cinque stelle e sembrava del tutto compatibile con l'idea di Conte di costruire "il polo giusto".
I contiani, però, hanno scelto la strada dell'isolamento. Per gli stessi motivi del Pd, quella del M5s è una campagna elettorale di emergenza: i piani erano altri e non è un mistero che Conte sperasse in un ruolo più importante. È stato costretto a rivedere posizionamento e strategia, ma nei fatti si è trovato ad avere ben pochi margini di manovra. La dimensione in cui si ritrova il Movimento dopo l'autocomplotto che lo ha portato fuori dal governo e dall'alleanza di centrosinistra, infatti, non è quella delle origini, della forza populista anti-sistema che possa rivendicare purezza e diversità rispetto agli altri partiti. Chi spera in un ritorno alla fase pre 2013 è destinato a rimanere deluso. Sarebbe, del resto, una linea non credibile: i grillini hanno preso parte a tre diversi governi, hanno uomini nelle istituzioni e si sono abituati a certe dinamiche di potere. Conte non vuole perdere il suo posizionamento personale, che mira anche al voto moderato; allo stesso tempo i Cinque stelle non hanno rinunciato all'idea di convergenze future con i democratici; il lavoro di questi mesi aveva poi già definito la nuova piattaforma programmatica e il posizionamento politico: una forza ambientalista e radicale, attenta ai temi sociali, che potesse collocarsi saldamente nel perimetro del centrosinistra. Nel contesto di questa campagna elettorale, però, tutto ciò rischia di tradursi in una proposta confusa e contraddittoria: a causa della legge elettorale, votare i Cinque stelle può tradursi in un favore alla destra (con cui pure hanno governato); l'elettore anti-sistema ha offerte più attrattive a sinistra ma anche a destra (ne parleremo); presentarsi divisi per opporsi uniti non sembra la miglior scelta possibile. Insomma, la domanda cui Conte dovrà cercare di rispondere è quella che si faranno in molti: votare 5 Stelle esattamente per fare cosa e con chi?
La campagna elettorale del terzo polo, forse quarto, forse quinto
La fine della telenovela Azione – Partito democratico ha condizionato in modo irreversibile il destino delle forze politiche centriste, scompaginando un quadro che sembrava ormai delineato.
Renzi, Calenda, ex di Forza Italia, radicali, liberali e moderati divisi in un nugolo di forze politiche, associazioni, think thank: non è affatto semplice delimitare il campo di quello che è, o almeno potrebbe essere, il terzo polo (che poi sarebbe il quarto, considerando i 5 Stelle). Anche perché, nel momento in cui scriviamo, non ci sono ancora certezze su accordi, apparentamenti, liste uniche o coalizioni. La legge elettorale, in tal senso, non aiuta: la soglia di sbarramento è molto più alta per le coalizioni, ma se fai una lista unica perdi chiaramente l’effetto moltiplicatore dei simboli e diminuisci il numero dei candidati, limitando il bacino potenziale di elettori. Peraltro, in un ambiente che pullula di leader o presunti tali, nonché di sigle e riferimenti, non è semplice trovare la quadra per un soggetto unitario. La comune definizione di "draghiani" serve fino a un certo punto: il programma comune, l'agenda Draghi che i centristi giurano di conoscere, e un leader che non c'è (l'ex Presidente del Consiglio non ha mai neanche pensato di benedire l'esperimento centrista), non possono fare da collante per un raggruppamento di cui non si conoscono né gli obiettivi né il bacino potenziale (e che rischia di essere stritolato alle urne dalla logica del voto utile).
Le scelte di alcuni soggetti hanno complicato (eufemismo) la costruzione di una proposta politica chiara e unica da sottoporre al voto degli elettori. Italia Viva ha atteso per giorni che gli altri convergessero sulle proprie posizioni, per poi annunciare la campagna solitaria e successivamente riaprire alla costruzione del terzo polo (cominciando dall'accordo con Italia C'è, soggetto cui prende parte anche l'ex grillino Pizzarotti). Azione si è federata con +Europa, ha chiuso un accordo col Pd, poi lo ha strappato, per rompere pure con Bonino, e ha cominciato a raccogliere le firme anche se non è chiarissimo se intenda presentarsi da sola alle elezioni. +Europa alla fine ha chiuso un accordo col Pd, così come Impegno Civico di Tabacci e Di Maio, altro gruppo nato sotto l'ombrello draghiano. Contro chi farà campagna elettorale questo nuovo polo? Sarà una semplice battaglia di rappresentanza nell'ottica della costruzione della casa dei liberali-moderati o una stampella in caso di futuri governi traballanti?
Resta la sovraesposizione mediatica dei leader, da Calenda a Renzi, che peraltro non trova adeguato riscontro nei sondaggi. Resta la linea in campagna elettorale: siamo gli unici in grado di governare il Paese, eredi diretti del governo dei migliori, il solo argine ai populisti. E resta una certezza: non funzionerà.
La campagna elettorale degli altri, dai no vax ai no 5G (sì, anche loro)
Se vi è sembrato che la situazione nel centro/centrosinistra fosse caotica, è perché non vi siete mai interessati a quello che sta succedendo nell’area “di protesta”, che sia sovranista, complottista, negazionista o populista. Qui abbiamo provato a fare un resoconto dettagliato di tutte le sigle e i movimenti che stanno cercando di presentarsi alle urne, superando le difficoltà legate alla raccolta delle firme e alla costruzione delle liste. C’è praticamente di tutto e ci toccherà vedere di tutto: dai negazionismi della Covid-19 a quelli che mettono la ghigliottina nel simbolo della propria lista (non sarà ammessa, ovviamente), passando per candidature improponibili e manifestazioni contro la censura dei poteri forti.
Ci vorrà tanta pazienza.