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Covid 19

La Lombardia non rispetta i parametri del Ministero della Salute ma riaprirà tutto lo stesso

Poco prima che il premier Conte annunciasse la fine del lockdown per l’emergenza Covid, sono arrivati i risultati del monitoraggio sulla prima fase di riaperture, iniziata il 4 maggio. Sono i dati essenziali per decidere come andare avanti, ma in realtà le decisioni sono state prese molto prima della loro diffusione. I numeri però dicono che la situazione non è affatto sotto controllo, soprattutto in Lombardia.
A cura di Marco Billeci
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Alle 19.30 di sabato 16 maggio, nel cortile di palazzo Chigi, si stanno disponendo le sedie per i giornalisti. Un’ora dopo, in conferenza stampa, il premier Conte illustrerà le misure che permettono, da lunedì prossimo, le riaperture di ristoranti, negozi, parrucchieri e altre attività su tutto il territorio nazionale. Sarà possibile inoltre spostarsi senza più vincoli all’interno delle regioni. È di fatto la fine del lockdown, dopo i mesi dell’emergenza Covid.

Negli stessi minuti l’Istituto Superiore della Sanità diffonde i numeri sul monitoraggio dell’andamento dell’epidemia dal 4 maggio in poi. Da quando, cioè, è stato deciso un primo allentamento delle restrizioni. La tempistica non è indifferente. Secondo gli stessi atti del governo, è su questi dati che ci si dovrebbe basare per decidere se il contagio del virus è sotto controllo e se quindi si può procedere con ulteriori riaperture. Quando le statistiche vengono rese pubbliche, però, in sostanza molto è già stabilito: da lunedì si riapre (quasi) tutto in tutta Italia, come Conte spiegherà di lì a breve. Eppure sia i tempi della diffusione dei risultati del monitoraggio che i contenuti suggeriscono che questa decisione dovrebbe essere meno scontata di quanto appaia.

Le tempistiche del report

Facciamo un passo indietro. Il 26 aprile, Conte annuncia in conferenza stampa l’avvio della fase due per il 4 maggio, con la ripartenza di gran parte dell’industria e di alcuni servizi. Nel suo intervento, il premier spiega che verrà attivato un meccanismo di monitoraggio dell’epidemia, per verificare gli effetti delle prime riaperture e decidere se procedere oltre. Il 30 aprile, il ministero della Salute pubblica un decreto che specifica le modalità per attuare questa verifica. In sintesi, le regioni dovranno raccogliere ogni giorno le informazioni su 21 parametri che descrivono lo stato delle cose, dal numero dei contagi ai ricoveri in terapia intensiva. Incrociando tra loro questi numeri, una cabina di regia coordinata dall’Iss stabilirà un livello di rischio per i vari territori, in base a cui le istituzioni dovranno poi. scegliere se si può andare avanti con le riaperture, se bisogna fermarsi o se è necessario tornare indietro.

La presentazione alla stampa del primo report sull’impatto dell’avvio della fase due è prevista per venerdì 15 maggio, ma l’evento è annullato. Almeno fino a giovedì sera, diverse regioni non hanno mandato i dati utili per lo studio. In alcuni casi poi le informazioni sono incomplete: nello stesse comunicazioni dell’Iss si evidenzia come quattro regioni (ma non si dice quali) abbiano inviato solo il 30 percento delle informazioni necessarie circa le date di inizio dei sintomi dei propri pazienti Covid. Eppure, già almeno da una settimana, in assenza quindi delle informazioni essenziali alle valutazioni del caso, la discussione tra governo e enti territoriali non è più sul “se” riaprire, ma al massimo sul “come”.

Anche limitandoci alla cronologia degli ultimi giorni, i conti non tornano. Alle nove e mezza di mattina di venerdì 15 maggio, viene diffusa la prima bozza del decreto che regola la ripartenza delle attività sociali e commerciali. Nessuna regione mette in dubbio la necessità di andare avanti, il dibattito si concentra su quali sono i criteri da adottare per farlo. Ma in base a cosa si è già deciso che va bene aprire tutto, ovunque? Pure nell’ipotesi più generosa – per cui tutte le informazioni dalle regioni relative al monitoraggio sarebbero arrivate nella nottata di giovedì -, è difficile pensare che ci sia stato il tempo di elaborare i dati in poche ore per portarli sul tavolo del governo già nella mattinata di venerdì. D’altra parte, non si spiegherebbe perché altrimenti per diffondere al pubblico i risultati si sarebbero aspettate quasi altre 48 ore. Come detto, infatti, è solo nella serata di sabato, circa un’ora prima della conferenza stampa del premier, che l’Iss pubblica gli esiti del monitoraggio. Rimane allora aperta la domanda: su quali dati hanno fatto perno le istituzioni nazionali e locali per decidere che ci sono le condizioni per procedere con le riaperture?

Cosa c'è nel report dell'Iss

Ok, sta di fatto che, anche se in extremis, nella serata di sabato i risultati del monitoraggio arrivano. Ci possono tranquillizzare? “La circolazione del virus è molto contenuta in gran parte del Paese. Rimangono focolai importanti in alcune zone, ma i segnali mostrano che c'è una capacità di controllarli”, dice il presidente dell’Iss Brusaferro, nel video di presentazione del report. Come si traduce questa presa di posizione nelle statistiche dello studio? In diciotto tra regioni e province autonome, il livello di rischio è considerato basso, anche se la situazione in sei di questi territori è descritta come “fluida”. I dati, infatti, fotografano ancora in parte la situazione degli ultimi giorni di completo lockdown e servirà ancora un po’ di tempo per capire l’evoluzione del virus. Al momento comunque, in queste aree non c’è motivo per bloccare il procedere della fase due.

Ci sono, invece, tre regioni in cui il livello di rischio è classificato come moderato. Si tratta dell’Umbria, del Molise e della Lombardia. In conferenza stampa, Conte ha invitato a non soffermarsi solo su questo indice. “Ci sono tanti parametri che alla fine danno dei risultati e delle tabelle”, ha detto. In realtà il premier incappa in un’imprecisione: è lo stesso decreto del ministero della Salute, infatti, a individuare il livello di rischio come dato di sintesi dei diversi indicatori ed elemento su cui fondare le decisioni politiche.

Nei casi di rischio moderato, il decreto prevede un supplemento di analisi. Si legge nel testo: "Una classificazione di rischio moderato/alto/molto alto porterà a una rivalutazione congiunta con la Regione o Provincia Autonoma interessata che porterà a integrare le informazioni da considerare con ulteriori valutazioni svolte dalla stessa, sulla base di indicatori di processo e di risultato calcolati per i propri servizi". In una situazione di rischio moderato, insomma, non c'è un immediato semaforo verde,  ma le statistiche vanno integrate con altri elementi disponibili riguardo al sistema sanitario del territorio in questione.

Solo dopo questo supplemento di istruttoria, si dovrebbe decidere se le misure in atto sono sufficienti a contrastare il diffondersi del virus. Altrimenti, la regione dovrebbe procedere con maggiori restrizioni. Come scritto nel decreto: "Qualora si confermi un rischio alto/molto alto, ovvero un rischio moderato ma non gestibile con le misure di contenimento in atto, si procederà alla rivalutazione delle stesse". Semplificando, nella situazione in cui si trovano attualmente Umbria, Molise e Lombardia, secondo le disposizioni del ministero della Salute,  in queste ore si dovrebbe discutere se sono necessarie ulteriori chiusure, mentre invece da lunedì anche in quelle aree si prepara un gran numero di riaperture.

La preoccupazione è soprattutto per la regione amministrata da Attilio Fontana, la più colpita dal Covid. Se in Molise e Umbria, infatti, i focolai sembrano al momento limitati e dunque gestibili, in Lombardia il numero dei casi “rimane elevato”, come scritto nel rapporto dell’Iss. Ha detto Conte in conferenza stampa: “Noi in questo momento non abbiamo motivo per dire alla Lombardia di non aprire, perché non è nella fascia che giustifica la chiusura”. Si torna però alla domanda iniziale, sulla base di quali dati si sta decidendo chi oggi è in pericolo e chi no?

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