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Opinioni

La fusione nucleare ci dice che è urgente riaprire il dibattito sui rapporti tra scienza e politica

Dopo l’annuncio del risultato raggiunto dai ricercatori della National Ignition Facility (NIF) degli Stati Uniti sulla fusione nucleare, è inevitabile la riflessione sull’inestricabile rapporto tra scienza, politica, economia e società.
A cura di Giorgio Sestili
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Il National Ignition Facility del Lawrence Livermore National Laboratory della California / DOE.
Il National Ignition Facility del Lawrence Livermore National Laboratory della California / DOE.

In questi giorni tanto è stato detto e scritto sull’indubbia importanza, da un punto di vista scientifico, del risultato raggiunto dai ricercatori della National Ignition Facility (NIF) degli Stati Uniti sulla fusione nucleare. Entusiasmo comprensibile, certo, soprattutto per un esperimento cominciato trent’anni fa e che nel tempo ha dovuto superare numerose difficoltà, controversie e cambi di rotta. Quello che però manca nel dibattito pubblico attuale è un serio e rigoroso discorso sul ruolo e le responsabilità degli scienziati nella società contemporanea; sul rapporto tra la ricerca scientifica di base e le sue applicazioni tecnologiche; sull’inestricabile rapporto tra scienza, politica, economia e società.

Ad evitare (o non padroneggiare) tale dibattito non è solo la comunità scientifica ma, purtroppo, anche molti colleghi comunicatori e giornalisti scientifici, che in larga parte hanno favorito e amplificato i caratteri entusiastici e spregiudicati dell’annuncio dato dal Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (DOE) e dall’Amministrazione per la Sicurezza Nucleare Nazionale (NNSA) il 13 dicembre, senza interrogarsi né indagare le problematiche aperte dalla ricerca e dagli investimenti sulla fusione nucleare.

Sembrano fin troppo lontani i tempi in cui Marcello Cini, fisico ed epistemologo scomparso nel 2012, tra i cui meriti ci fu quello di aprire negli anni Settanta un dibattito critico e profondo sulla presunta neutralità della scienza, all’indomani dello sbarco americano sulla Luna nel settembre del 1969 scriveva su Il Manifesto: “Se facciamo ricerca spaziale per ragioni di prestigio, allora dovremmo domandarci se otteniamo maggior prestigio col mandare un uomo sulla Luna, o non piuttosto col riuscire a risolvere il problema del drenaggio dell’acqua nel bacino della valle dell’Indo al Pakistan. Se invece facciamo la ricerca spaziale a causa delle sue implicazioni militari, dovremmo dirlo chiaramente […]. Appare chiaro che il potenziamento militare e il suo sfruttamento sul piano di una politica di potenza sono le ragioni principali della corsa allo spazio”.

Eppure, veniamo da tre anni di pandemia che hanno fatto riemergere con forza il tema del difficile rapporto tra scienza, media e società. Anni in cui il progresso scientifico, fatto per sua natura di incertezza, tentativi, fallimenti e grandi successi, improvvisamente è diventato talk show, con tempi, modi e linguaggi incompatibili con quelli della scienza.

Il risultato è stato quello di un’enorme polarizzazione del dibattito, dentro e fuori la comunità scientifica. Scienziati schierati a favore e altri schierati contro il lockdown o le mascherine, e un’opinione pubblica profondamente divisa su vaccini e fiducia nella scienza. Tre anni di pandemia avrebbero dovuto suggerire a tutti – scienziati, politici, uffici stampa e giornalisti – di prestare maggiore attenzione nel modo con cui si comunicano la scienza e i risultati della ricerca. E soprattutto, nel saper collocare un’impresa scientifica anche all’interno di un contesto geopolitico, economico e sociale, fattori che nell’epoca della big science non possono non essere considerati congiuntamente.

L’annuncio del risultato raggiunto sulla fusione nucleare presso i Lawrence Livermore National Laboratory (LLNL) offre enormi spunti di riflessione proprio su questi temi, sui quali sarebbe opportuno aprire un ampio dibattito epistemologico prima ancora che scientifico. Questo – voglio anticiparlo – non per dire che la ricerca sulla fusione nucleare non debba andare avanti; ma proprio perché è importante che vada avanti, è fondamentale rafforzare quella consapevolezza critica necessaria quando si ha a che fare con esperimenti scientifici di portata epocale e che potrebbero avere un impatto drammatico (in positivo e in negativo) sulla vita degli esseri umani.

La fusione nucleare tra applicazioni civili e militari

Il primo elemento su cui riflettere sono i finanziamenti che stanno alimentando l’esperimento americano sulla fusione nucleare. Qualcuno è rimasto impressionato dalle cifre stanziate, che si aggirano tra i 3,5 e i 5 miliardi di dollari complessivi. Ma forse questo qualcuno non si è andato a guardare i finanziamenti al programma Apollo per lo sbarco dell’uomo sulla Luna, che negli anni ’60 erano di oltre 5 miliardi all’anno.

Ben più problematica è invece la fonte di tali finanziamenti, ovvero il Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti (DOE), un dipartimento esecutivo del governo federale che gestisce non solo la ricerca e lo sviluppo dell'energia nucleare, ma anche quella delle armi nucleari.

Fa bene quindi Elena Comelli su Il Sole 24 Ore a ricordare che “la missione centrale della National Ignition Facility, nel cui ambito si è svolto l’esperimento, è fornire informazioni sperimentali di interesse militare alla National Nuclear Security Administration, in particolare utili per lo sviluppo della tecnologia delle armi termonucleari e per la gestione dell’arsenale nucleare americano”.

Di fronte a ciò e a un contesto geopolitico di guerra con la Russia, è forse sbagliato domandarsi se gli annunci sulla fusione nucleare dati in pompa magna dell’amministrazione Biden non siano anche un messaggio diretto a Vladimir Putin che poco ha a che fare con la crisi energetica, ma piuttosto è rivolto ai continui riferimenti del Cremlino a un attacco nucleare? Domande importanti, che devono vivere nel dibattito pubblico perché interrogano con forza il rapporto tra scienza e potere.

In fondo è lo stesso DOE a non fare mistero della natura militare della ricerca sulla fusione nucleare. Era il 1997 quando Victor Reis, assistente segretario per i programmi di difesa, ha difeso di fronte a numerosi scettici il programma di ricerca sulla fusione nucleare affermando di fronte al Comitato per i servizi armati della Camera degli Stati Uniti che il National Ignition Facility (NIF) era "progettato per produrre, per la prima volta in un ambiente di laboratorio, condizioni di temperatura e densità di materia vicina a quelle che si verificano nella detonazione delle armi nucleari. La capacità di studiare il comportamento della materia e il trasferimento di energia e radiazioni in queste condizioni è la chiave per comprendere la fisica di base delle armi nucleari e prevedere le loro prestazioni senza test nucleari sotterranei".

Nel 1998, altri esperti scientifici e tecnici affermarono che il NIF è il programma scientificamente più prezioso di tutti i programmi proposti per la gestione delle scorte di armi nucleari su base scientifica.

Sul rapporto tra scienza e applicazioni militari ho sentito anche il parere di Roberto Battiston, fisico dell’Università di Trento e presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana dal 2014 al 2018: “La ricerca sulle alte energie, sui programmi spaziali o anche sui supercalcolatori elettronici, pongono sempre un problema di rapporti tra scienza e industria militare e di responsabilità nel loro utilizzo, ma il problema di come si usa la tecnologia non è solo degli scienziati. L’alternativa non può essere non fare ricerca perché qualsiasi cosa può essere usata bene o male. Gli scienziati non possono rappresentare la coscienza della società”.

Insomma, con la scienza si può fare tutto e il contrario di tutto, come è stato con la fissione nucleare, che prima di vederla utilizzata come fonte di energia per le nostre abitazioni, l’abbiamo vista esplodere in tutta la sua drammaticità e potenza devastante ad Hiroshima e Nagasaki il 6 e 9 agosto del 1945.

Ma questo, a mio modo di vedere, non solleva gli scienziati dalle loro responsabilità né erge la scienza a una presunta posizione neutrale e super partes rispetto alle scelte politiche intraprese. Al contrario, pone con estrema forza il ruolo della scienza nel contesto sociale e politico in cui opera, che da un lato deve garantire il continuo progresso della ricerca scientifica ma dall’altro dovrebbe contribuire a “sorvegliare”, in un dibattito democratico interno alla società, il corretto utilizzo delle sue applicazioni tecniche e tecnologiche.

Rapporto, quello tra scienziati e politici, sottolineato anche da un altro fisico e premio Nobel, Giorgio Parisi, intervistato sull’ultimo numero della rivista Dinamo Press: “Le scienze sono i fari che illuminano quando si guida di notte, ma a guidare sono i potenti e i politici, spetta a loro la responsabilità di non finire fuori strada […] Ad esempio, sono decenni che la scienza ci ha avvertito che i comportamenti umani stavano mettendo le basi per un aumento vertiginoso della temperatura del nostro pianeta. Sfortunatamente le azioni intraprese dai governi non sono state all’altezza di questa sfida e i risultati finora sono stati estremamente modesti”.

La fusione nucleare non risolve il riscaldamento globale

Le parole di Parisi aprono un altro tema, quello della lotta ai cambiamenti climatici, impropriamente associato in questi giorni al risultato ottenuto sulla fusione nucleare. Anche in questo caso devo constatare che il modo di comunicare ha fatto acqua da tutte le parti. L’eccessivo entusiasmo mostrato innanzi al risultato raggiunto ha portato molti scienziati e giornalisti – che dovrebbero interrogarsi ed indagare invece che prendere per olio colato i comunicati stampa e le dichiarazioni di scienziati coinvolti – a fare il passo più lungo della gamba, e ad indicare la fusione nucleare come la soluzione ai cambiamenti climatici.

A chi si occupa di giornalismo e comunicazione scientifica, qualche dubbio sarebbe dovuto venire già nel leggere il comunicato stampa, che nel modo in cui è stato costruito sembra più una sfilata di moda che l’annuncio di un importante risultato scientifico. Prima di arrivare ai risultati scientifici ottenuti, è infatti necessario leggere ben 10 virgolettati, nell’ordine: il segretario all'Energia degli Stati Uniti Jennifer M. Granholm; Arati Prabhakar, consigliere capo del presidente per la scienza e la tecnologia e direttore dell'ufficio della Casa Bianca per la politica scientifica e tecnologica; l’amministratore della NNSA Jill Hruby; il direttore di LLNL, Kim Budil; il leader della maggioranza al Senato degli Stati Uniti Charles Schumer; la senatrice statunitense Dianne Feinstein; Il senatore degli Stati Uniti Jack Reed, presidente del Comitato per i servizi armati del Senato; il senatore statunitense Alex Padilla; il rappresentante degli Stati Uniti Zoe Lofgren; il rappresentante degli Stati Uniti Eric Swalwell. Non solo scienziati ma tanti politici che, in tutte le loro dichiarazioni, hanno affermato il passo storico verso la produzione di energia pulita grazie alla fusione nucleare.

Gli scienziati del NIF sono più cauti e nel comunicato stampa affermano che la tecnologia per produrre energia si possa raggiungere negli anni ’50, con una previsione a trent’anni che per forza di cose ha un enorme margine di errore. E in ogni caso, anche se così fosse, per mitigare gli effetti del riscaldamento globale sarebbe comunque troppo tardi.

Moltissimi fisici e ingegneri nucleari intervistati in questi giorni concordano su un punto: siamo lontanissimi dalla messa in funzione della prima centrale elettrica a fusione nucleare e – dicono – con l’attuale livello di finanziamenti forse non ci arriveremo mai.

Ed ecco un altro punto fondamentale: annunci così altisonanti di una parte della politica e della comunità scientifica statunitense, non servono forse a dirottare miliardi di dollari di investimenti sulla fusione nucleare? Certamente sì, perché nell’era post-accademica della scienza non si può fare a meno della ricerca del consenso e dei finanziamenti da parte della politica.

Ma la coperta non è infinita e se la si tira dal lato della fusione nucleare, il rischio è che rimanga poco o niente per le energie rinnovabili come il solare e l’eolico che abbiamo già pronte per l’uso, e che necessitano di ulteriori investimenti decisivi dal punto di vista dello sviluppo tecnologico per il prossimo futuro.

La soluzione per abbandonare i combustibili fossili e produrre energia pulita e rinnovabile ce l’abbiamo, è sotto gli occhi di tutta e si chiama fotovoltaico ed eolico – mi dice convintamente Battiston -. I prezzi per la produzione di queste tecnologie sono crollati, il Silicio oggi ha costi risibili rispetto a dieci anni fa e questo grazie alla tecnologia e all’industria. Altro problema è l’accumulo dell’energia ma le batterie sono scese del 97% a livello di costi e ci sono altre forme di accumulo molte interessanti e intelligenti che aspettano solo di essere commercializzate. Quando avremo un’adeguata capacità di accumulo andremo ad occhi chiusi verso fotovoltaico ed eolico”.

Ma nella società ci sono anche spinte contrarie, tra chi ha investito centinaia di miliardi sui combustibili fossili e continua a scavare alla ricerca di gas e petrolio, e chi vuole puntare tutto sul nucleare, a fusione o fissione che sia.

Nella società ci sono degli interessi diversi ed oggettivi, ed è normale” conclude Battiston. È normale e la ricerca deve andare avanti in tutte le direzioni, ma spetta alla politica dettare i tempi, gli investimenti e le tabelle di marcia di ciascun ramo di ricerca. E ancora una volta, queste decisioni ci pongono di fronte ai complessi rapporti tra scienza, politica e società.

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Fisico di formazione, comunicatore scientifico di professione. Mi occupo di scienza, tecnologia, innovazione, e aiuto a comunicarle bene. Fondatore del progetto "Coronavirus - Dati e Analisi Scientifiche". Tutto su di me su giorgiosestili.it
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