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Opinioni

La favola del populismo al tempo del cinismo, dell’opportunismo e della paura

Dopo anni passati a soffiare sul fuoco della crisi e a speculare sulle politiche emergenziali, ora politica, opinione pubblica e informazione si stupiscono dell’avanzata del demone del populismo. Che è e resta l’arma più forte della conservazione.
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C'è un filo sottile che lega analisi molto diverse fra loro per provenienza, matrice, riferimenti culturali sul tema del "dilagare del populismo in Europa". Qualche giorno fa, ad esempio, Marcello Veneziani sul Giornale scriveva: "Il populismo è il nome d'arte del comune disagio, è il risultato naturale di una democrazia rubata, di una sovranità esautorata e di un dominio sempre più cieco della finanza a danno delle persone. Il populismo è l'infiammazione di un popolo stremato, che ha perso le difese immunitarie. Non potete demonizzare la reazione comune allo stato di cose". Dall'altra parte della barricata (ammesso che ne esista ancora qualcuna), all'interno di una lunga analisi pubblicata su L'Espresso, Gigi Riva spiega: "Non c’era mai stata tanta gente, nel Vecchio Continente, che ne contesta l’esistenza stessa (dell'idea di Europa, ndr). E potrebbe succedere ciò che avviene a casa nostra: socialisti e popolari costretti a larghe intese. Contro il nemico comune". E, più ad ampio raggio, sulla questione interviene anche Paolo Becchi, con una analisi pubblicata sul blog di Grillo: "Cominciamo a fare un poco di chiarezza. Il “populismo” non esiste. Esistono i populisti, che tra loro non hanno, talvolta, nulla in comune, e che possono esprimere, di volta in volta, movimenti radicali di protesta, forme politiche reazionarie. […] Il populismo non è una teoria politica: è, piuttosto, una sindrome – una serie di sintomi, di segni indicativi di una malattia. È ciò che esprime un malessere che cova all’interno della società, che lo porta di volta in volta in forme diverse alla luce. Il “populismo” non è che il nome retorico del malessere di un’Europa malata, l’ Europa dei banchieri della speculazione finanziaria, del partito unico dell’ Euro che sta riducendo alla fame milioni di cittadini europei".

E "tecnicamente" siamo d'accordo con Becchi quando dice che il problema non è sulla definizione di "populismo", quanto piuttosto sul senso e sulla valenza dell'idea di Europa e su come (invece) si è configurata nel corso degli anni. A partire però da una serie di considerazioni, che riteniamo preliminari ad ogni interpretazione sulla "ostilità atmosferica" e sulla reale consapevolezza celata dietro quella che in molti definiscono l'adesione alla contestazione del modello europeo.

Si tratta di partire dal senso ambivalente che continua ad avere il richiamo all'Europa dei popoli. Ne avevamo scritto qualche settimana fa, a proposito della schedatura come "nemici pubblici" dei movimenti antieuropeisti, citando Panebianco: "Bisogna prendere atto che le divisioni che attraversano l'Europa sono ormai troppo profonde e che l’unico modo per non esasperarle ulteriormente è cambiare registro. È inutile, e controproducente, continuare a spendere vuota retorica a favore di una ipotesi di super Stato — gli Stati Uniti d’Europa — che probabilmente non nascerà mai e che, comunque, in questa fase storica, non interessa alla maggioranza degli europei”. E, d'altra parte, ogni generico rimando ad una Europa solidale e inclusiva, sembra essere privo di riscontri evidenti se non si ammette che il cammino verso la conclusione del processo di unificazione "sostanziale" è lento, farraginoso e pieno di ostacoli. Anche perché, per citare i Wu Ming, "l'Europa è interessante nella misura in cui è un'entità tratteggiata e in via di formazione, in cui i giochi sono ancora aperti. L'Europa è un terreno privilegiato d'azione, ma solo come laboratorio di un'apertura verso l'esterno, di una connessione con le popolazioni che attraversano il mondo e che lo abitano".

La sensazione è che il furore anti-europeista sia semplicemente un sottoprodotto della propaganda reazionaria e conservatrice delle elite europee. Un effetto collaterale, se vi suona meglio. Perché è difficile credere che abbia qualche fondamento oggettivo la banalizzazione manichea in voga negli ultimi anni: da una parte un'Europa incapace di agire in maniera efficace ed incisiva con le responsabilità della crisi che sono da addebitarsi a chi ha retto il timone degli Stati nazionali, dall'altra una governance europea talmente forte da condizionare in maniera dirimente le politiche fiscali, economiche e sociale degli Stati. La realtà è ovviamente molto più complessa e ogni ricostruzione è senza alcun dubbio dominata dalla propaganda. Già, propaganda. Quella di chi ha soffiato sul fuoco della crisi, per interesse. Ma anche quella di chi ha vivacchiato su politiche emergenziali che hanno creato nuove e profonde tensioni sociali e contribuito a creare una cortina di paura, ansia, insicurezza e insoddisfazione. Condizioni che, unite a fluttuazioni economiche di portata decisamente rilevante, sono certamente da annoverare fra le cause principali del "furore populista" e della cieca rabbia contro le istituzioni europee. Il tutto, si badi bene, senza nemmeno scendere nelle questioni di merito. Come tristemente evidenziato dal "caso Italia".

Perché se è vero che la nostra epoca è quella del "cinismo, dell'opportunismo e della paura" (come dice Paolo Virno), qui in Italia ne abbiamo una dimostrazione evidente. Il cinismo è quello di una classe politica pronta a nascondere la propria inconsistenza e la propria incapacità di dare risposte chiare ed efficaci dietro il "mostro Europa". Così dalle quote latte, alla questione immigrazione (ma per favore…), passando per i "paletti", la disoccupazione ed arrivando fino alla politica estera, alle missioni militari e alle riforme istituzionali, il "ce lo chiede / impone l'Europa" diventa una specie di jolly per: giustificare scelte, individuare il nemico, distinguere il bene dal male, fissare finti obiettivi e rimpinguare sterili programmi.

L'opportunismo è quello degli attori economici e "istituzionali", di chi sostanzialmente in questo "sistema malato" ha trovato nuove fortune. Di chi ha speculato sulla crisi e trionfato sulla sua gestione. Di chi la paura e l'insicurezza la cavalca per blindare la conservazione, la reazione. E del resto, se è vero come è vero che la deriva antieuropeista attraversa l'intera Europa, allo stesso tempo il solo carattere comune è la crescita ed il rafforzamento dei fronti conservatori. Dalla Germania all'Inghilterra, passando per le "grandi malate" Spagna e Grecia, fino ad arrivare all'Est europeo ad avere in mano le redini sono forze conservatrici e reazionarie (per limiti enormi delle forze progressiste, si dirà, ma a nostro umilissimo parere anche per il complesso di ragioni di cui abbiamo ragionato finora). E non fanno eccezione nemmeno Italia e Francia, dove la destra non è al Governo per "motivi del tutto particolari" (su cui non è il caso di indugiare oltre).

La paura è quella quotidiana e paralizzante di milioni di cittadini, che vedono in discussione sicurezze, progetti, ideali. È una leva fin troppo utilizzata, un concetto fin troppo svilito per reggere ulteriori speculazioni. Ma è anche la reazione più naturale e controllabile. Come testimonia il naufragio di ogni processo di cambiamento che poggia sulla contestazione demagogica e qualunquista che, inutile negarlo, è diventata tratto distintivo del "populismo ai tempi della crisi". E che dallo stallo si esca grazie ad uno strumento della conservazione è cosa davvero poco credibile.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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