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La favola del “Mezzogiorno che rinasce”, raccontata da Matteo Renzi

“La questione Mezzogiorno è ancora aperta. Ma ho fiducia in alcuni progetti simbolo: Taranto, Bagnoli, Pompei, Gioia Tauro”: così scrive Matteo Renzi. Peccato però che la realtà in queste 4 aree sia completamente diversa. E che il suo Governo abbia fatto poco e male.
A cura di Redazione
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di C. Pellegrino, A. Viscardi, A. Musella, A. Biondi – video di A. Viscardi, G. Bozza

“Sappiamo di avere una questione Mezzogiorno ancora aperta. Al Sud la ripresa non è ancora arrivata e non sarà qualche decimale di punto a farci cambiare idea. Ho molta fiducia nella capacità di alcuni progetti simbolo di trainare la ripresa: in settimana i parlamentari – che stanno lavorando molto più che in passato e a loro va la mia gratitudine – hanno approvato il DL Taranto. Penso dunque alle sfide legate a Ilva, ma anche a Bagnoli, su cui stiamo per nominare il commissario proprio nelle ore in cui festeggiamo il buon lavoro che è stato fatto sulla Città della Scienza dopo il rogo di due anni fa, a Pompei, su cui vediamo finalmente i primi risultati, fino al porto di Gioia Tauro, ai progetti turistici e imprenditoriali siciliani”.

È questo il passaggio della sua tradizionale newsletter che Matteo Renzi dedica alla irrisolta questione meridionale, una delle eterne priorità di governi e movimenti politici che si propongono alla guida del Paese. Un riferimento non scontato, considerando la ritrosia del Presidente del Consiglio a mettere la faccia sulle questioni scomode o sulle emergenze a forte rischio impopolarità (ogni riferimento alla vicenda immigrazione, alla polemica anti rom o alla questione delle unioni gay è ovviamente voluto). Ma è anche una considerazione che permette di cogliere una delle contraddizioni evidenti della sua reggenza a Palazzo Chigi: il rifiuto a parole della logica emergenziale e la prassi della decretazione d’urgenza, del dirigismo, dell’autoritarismo e del ricorso a “provvedimenti una tantum” (peraltro va riconosciuta al Governo una certa efficacia nel risolvere "vertenze specifiche" e problemi aperti, per così dire, di ordinaria amministrazione).

Ma quella del Governo del fare che risolve questioni aperte da anni è poco più di una favoletta, che il Presidente del Consiglio prova a raccontare prima a sé stesso, poi agli italiani. Perché manca un’idea “diversa” di Mezzogiorno, lontana sia dall’assistenzialismo che dalla retorica dell’innovazione, distinta sia dal meridionalismo d’accatto della vecchia classe dirigente, sia dalla superficialità “futurista” dei nuovi rottamatori. Manca cioè una visione, per dirla con le parole di Francesco Barbagallo, che vada oltre l'immagine di un "Mezzogiorno in cui prevalgono caratteri superficiali di modernità che convivono con l'arretratezza, giacché non si è modificata sostanzialmente la struttura produttiva, né si è innescato un processo autonomo di sviluppo". Un processo, svincolato dall'eccessivo peso del potere politico, sarebbe il caso di aggiungere.

I dati parlano chiaro, del resto: il tasso di disoccupazione è al 21,2%, quella giovanile al 54,4% (fine 2014); è sempre forte il rischio desertificazione (solo nell’ultimo anno in 116mila sono stati costretti ad emigrare e la bilancia fra nati e morti è ancora in passivo); i consumi sono crollati del 13% negli ultimi 5 anni; dal 2008 al 2013 si registra un -53% degli investimenti e un -12% della produzione industriale; il Pil pro capite è quasi la metà di quello del Nord Est.

E quella di Renzi è una favoletta, soprattutto perché, come vi mostreremo, proprio su quei "progetti simbolo" il suo Governo ha fatto poco e male.

Ilva, un decreto nato vuoto (col giallo delle risorse)

Come hanno ben spiegato Andrea Zitelli e Maria Chiara Furlò, quella del decreto Ilva è la storia di un testo nato senza risorse finanziarie certe, mal scritto ma presentato come una svolta, ultimo di altri 6 decreti di precedenti governi che hanno tentato di rimediare, non riuscendoci, alla complessa vicenda dell’acciaieria tarantina, la più grande d’Europa.

Il provvedimento prevede la possibilità di utilizzare la legge Marzano come fatto per Alitalia, con un ulteriore investimento pubblico (800 milioni? 2 miliardi?). Il punto è che, “quando il decreto viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale il testo non rispecchia le promesse fatte. Le coperture presentate da Renzi non hanno un riscontro concreto e di soldi per Taranto città, ospedale e ricerca sul cancro proprio non c’è traccia”. Il grosso della questione ruota infatti intorno alla possibilità di utilizzare i soldi (1,2 miliardi di euro) sequestrati ai Riva, “anche in assenza di una sentenza passata in giudicato, grazie alla garanzia fornita dallo Stato” e soprattutto in tempi ragionevolmente certi (si tratta di capitali che devono rientrare dall’estero). Per ora, dunque, restano solo i 400 milioni della Cassa Depositi e Prestiti, i 260 milioni di prestiti bancari e i 156 milioni di Fintecna.

Sempre sulla questione risorse, vale la pena di segnalare anche come, “dei trenta milioni da destinare alla cura del cancro e alla ricerca scientifica, specialmente delle forme che aggrediscono i bambini, ne sono rimasti solo cinque, nello specifico così distribuiti  “0,5 milioni di euro per l’anno 2015 e 4,5 milioni di euro per l’anno 2016””.

La scelta dell’amministrazione straordinaria, peraltro, aveva già determinato come diretta conseguenza, l’impossibilità, “per i cittadini tarantini di essere risarciti dall’Ilva per i danni ambientali”. Una situazione cha ha del paradossale, dal momento che ora per i risarcimenti “le parti civili che si ritengono lese o dovranno procedere nei confronti dei singoli, oppure fare istanza al Tribunale fallimentare di Milano che sovrintende alla procedure dell'amministrazione straordinaria”.

Pompei, 44 cantieri da chiudere in dieci mesi (per non perdere i 105 milioni dell'Unesco)

Il ministro Dario Franceschini si è recentemente compiaciuto del fatto che l’ultimo report dell’Unesco abbia promosso il sito archeologico di Pompei per i “miglioramenti tangibili e significativi nello stato di conservazione” della città bloccata nel tempo dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.c. Eppure, se entro la fine del 2015 non saranno completati tutti i lavori previsti dal Grande Progetto finanziato con 105 milioni di euro proprio dall’Agenzia delle Nazioni Unite, gli stanziamenti andranno persi. Nonostante questa prossima deadline non suggerisca ottimismo, il direttore generale del G.P.P., il generale dei Carabinieri Giovanni Nistri, ha riferito in Parlamento di aver già impegnato 96 milioni di euro, nel rispetto del cronoprogramma stilato con il commissario EU, Johannes Hahn, lo scorso luglio. Impegnare fondi, però, non significa che i lavori siano partiti: 35 interventi sui 47 previsti dal progetto non sono neanche iniziati; nove sono quelli avviati e soltanto tre quelli completati. D’altronde, nella stessa relazione inviata al Parlamento, si prevede proprio che una dozzina di lavori siano completati solo dopo il 31 dicembre 2015, con la conseguente perdita di una cinquantina di milioni di euro.

Le immagini dei crolli della Schola Armaturarum sono impresse a fuoco nella storia dello scempio di Pompei e per quella stagione sono aperte diverse indagini a carico dell’allora commissario governativo, Marcello Fiori, e delle ditte incaricate di restauri e messe in sicurezza. I crolli, però, a Pompei non sono mai cessati, tanto è vero che neanche un mese fa, dopo qualche giorno di pioggia, è venuto giù un costone nel giardino della domus di Severus. Un crollo che fa sorgere qualche dubbio sulla bontà delle iniziative previste nel Grande Progetto Pompei, dato che proprio quell’area era stata oggetto nel giugno 2014 di uno studio sul rischio idrogeologico per cui erano stati spesi ben 90 mila euro dell’Unesco.

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Il Grande Progetto Pompei rischia di saltare anche per l’inchiesta della Procura delle Repubblica di Torre Annunziata sugli appalti vinti, con vertiginosi ribassi, dalle stesse società che durante il commissariamento avevano realizzato restauri come quelli del Teatro Grande – un vero e proprio scempio archeologico, così come viene definito da alcuni esperti come il presidente dell’Osservatorio Patrimonio Culturale, Antonio Irlando. All’ex-commissario Fiori, inoltre, sono stati sequestrati sei milioni di euro pochi giorni fa proprio per le vicende connesse a quei restauri, mentre le ditte responsabili dei lavori finiti sotto la lente della Procura di Torre Annunziata sono protagoniste anche del Grande Progetto Pompei.

La Sovrintendenza retta da Massimo Osanna, in carica da circa un anno, aveva salutato in pompa magna – con tanto di visita ufficiale del ministro Dario Franceschini – la riapertura di alcune Domus restaurate. Per garantire la sorveglianza di ben 13 nuove case, la dirigenza aveva stipulato un patto da 1,9 milioni di euro con la società partecipata Ales del Mibact, per l’assunzione di 57 figure professionali tra cui i custodi per le ville. Tutti contratti stipulati attraverso agenzie interinali, nonostante si tratti di una in-house del Ministero e dovrebbe indire bandi di rilevanza pubblica in questi casi. Nonostante l'immissione di questa nuova forza lavoro, molte di queste cose restano ancora oggi chiuse ai turisti.

Gioia Tauro: la "zona franca" nel porto dei traffici illeciti

Sulla scrivania del governo alla voce "Gioia Tauro" c'è il completamento dell'iter per la realizzazione della zona franca. Più propriamente, una zona economica speciale che sorgerebbe accanto all'area del porto di Gioia, uno dei più importanti scali europei. La costituzione dell'area dovrebbe agevolare ulteriormente l'abbattimento dei dazi doganali, potenziando ed ampliando la zona franca di 80 ettari istituita nel porto dall'Agenzia delle Dogane nel 2003 e che già consente di congelare l'IVA ed i dazi doganali. Uno scalo strategico, quello di Gioia Tauro, con oltre 3.000 navi in transito ogni anno ed un ruolo chiave per la rotta del cosiddetto "pendolino", ovvero l'arrivo delle navi container dall'Asia – principalmente cariche di prodotti per la chimica di base – che trasbordano su navi più piccole (che a loro volta partono per il Nord Europa).

Il bacino calabrese è finito al centro della relazione annuale della Direzione Nazionale Antimafia guidata da Franco Roberti. Nelle pagine della relazione dell'antimafia il porto di Gioia Tauro viene descritto come un nido di corruzione e malaffare. La cosca dei Pesce ha messo da tempo le mani sul porto, secondo l'intelligence, rendendolo il luogo di principale approviggionamento per la cocaina gestita dalla Ndrangheta. Sono 1406,065 i chili di cocaina sequestrati dal 1 luglio 2013 al 30 giugno 2014 dalle forze dell'ordine nel porto di Gioia Tauro: quello più recente è di 173 kg di polvere bianca proveniente dal Messico per un valore di 36 milioni di euro (lo scorso 9 febbraio).

Ma non solo la droga della Ndrangheta passa per il porto di Gioia Tauro. Lo scorso 9 marzo ben 14 mila giocattoli contraffatti provenienti dalla Cina sono stati rinvenuti dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabria stipati all'interno di alcuni container nel porto. Diverse inchieste della magistratura, poi, hanno accertato che alcuni dipendenti della Medcenter Container Spa, del gruppo Contship, che gestisce in sostanziale monopolio l'area container del porto, si dedicavano al recupero di partite di cocaina dai container. È il caso dell'inchiesta "All Inside" che ha portato alla condanna a 20 anni di reclusione per il direttore della Medcenter Container Spa, accusato di essere al centro dei traffici di droga delle cosche calabresi che transitavano per il porto di Gioia Tauro.

Il governo Letta individuò nello scalo calabrese il luogo strategico per l'arrivo delle armi chimiche del regime siriano di Assad destinate alla distruzione su una nave militare americana sotto la regia delle Nazioni Unite. In quella occasione il governo promise agli enti locali lo sblocco dei fondi per l'allaccio della rete ferroviaria al porto. Infatti, il bacino di Gioia Tauro non è collegato con la ferrovia rendendo molto difficili i collegamenti. Proprio per questo il porto di Gioia viene considerato un porto di "trasbordo". Dell'allaccio con la rete ferroviaria intanto non si hanno notizie.

Quello calabrese è un porto, dunque, già sotto la lente di ingrandimento delle forze dell'ordine che fanno fatica a controllare l'enorme mole di traffici che transitano per lo scalo: la zona franca senza dubbio agevolerebbe la diminuzione di controlli sul traffico dei container. Della zona franca nel porto, in ogni caso, si parla da anni ed i politici locali e nazionali promettono lo sblocco delle autorizzazioni ad ogni tornata elettorale.

Bagnoli: l'eterna incompiuta di Napoli attende un commissario

L'ex area industriale di Bagnoli, periferia Occidentale di Napoli un tempo votata alla siderurgia e poi oggetto di uno dei piani di dismissione più possenti d'Italia, è un monumento all'incompiuto all'ombra del Vesuvio. Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi e, in ultimo Giorgio Napolitano, hanno sprecato moniti e raccomandazioni in quasi venticinque anni; si sono avvicendati governi nazionali e Amministrazioni regionali e comunali: a Bagnoli oggi c'è una vasta area, l'ex colmata a mare, una linea di costa inquinata da anni di carbon coke, fuoco e metallurgia e numerose inchieste che vogliono fare chiarezza sul pacco di milioni d'euro e miliardi delle vecchie lire spesi per la bonifica del terreno, operazione inefficace secondo la Procura di Napoli che ha disposto il sequestro di un vasta area ex industriale. «Sono convinto che se riparte Bagnoli riparte il Sud»: così aveva dichiarato Matteo Renzi lo scorso 14 agosto, durante una visita all'area Occidentale carica di promesse e annunci: «Su Bagnoli si riparte con il commissariamento e tempi certi per la riqualificazione».

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Primo nodo: il commissario. Un soggetto esterno? Il sindaco partenopeo Luigi de Magistris su questa ipotesi ha da subito annunciato guerra: «Non ci lasceremo espropriare un pezzo di città». Dunque, poteri al sindaco. A colui che in questi quasi cinque anni poco nulla ha fatto su Bagnoli? A Renzi l'idea non piace: bisogna dare una sferzata, imprimere un cambio di direzione. In questi anni l'area Ovest di Napoli è solo peggiorata. Le strutture costruite coi soldi pubblici sono praticamente da buttare causa inutilizzo; alla situazione già drammatica si sono aggiunte nel corso degli anni varie vicende: l'allarme amianto, nonché il devastante – e ancora senza colpevoli – incendio di Città della Scienza. Nelle ultime ore pare che Palazzo Chigi abbia deciso di darsi una mossa sul commissario per l'area ex Italsider. Ma su chi punta il premier? Il solito giudice Raffaele Cantone, oggi capo dell'Anticorruzione e già alle prese col bubbone Expo 2015 a Milano? Una cosa è certa: il tempo dei progetti e delle promesse è bello che finito da un tempo. Se vorrà davvero "cambiare verso", Matteo Renzi dovrà presentarsi non solo con uomini credibili, ma anche e soprattutto con risorse tali che possano mettere la parola fine ad una vergogna durata fin troppi anni.

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