Abbiamo ormai preso una certa abitudine nel cerchiare di rosso sul nostro calendario quella che sembra poter essere la data della svolta, la fine della quarantena o il ritorno alla normalità. Anche il 18 maggio non fa eccezione, visto che rappresenterebbe la fine dell’inizio della fase due, o meglio, per usare un linguaggio mutuato dai diagrammi governativi, il passaggio dalla fase 2A alla fase 2B, precondizione per la "transizione avanzata" verso la fase 3. Se vi sembra piuttosto confusa come ricostruzione non avete tutti i torti, ma bisogna considerare cosa sono stati questi primi giorni di fase due: una serie di “aggiustamenti successivi”, di graduali riaperture e allentamenti nella rigidità dei controlli, intervallati dalle notizie più disparate su nuove norme e protocolli di sicurezza. Eppure, in queste due settimane sono successe delle cose fondamentali per il futuro a breve termine del nostro Paese: il governo ha finalmente varato il decreto Rilancio (55 miliardi a debito con le misure necessarie a tenere in piedi il sistema economico italiano); INAIL, ISS e Comitato tecnico scientifico hanno lavorato alla stesura dei protocolli di settore per consentire la ripresa di attività bloccate ormai da oltre due mesi; Governo e Regioni hanno raggiunto un’intesa di massima per le riaperture e per disciplinare la lunga fase di convivenza con il coronavirus, mettendo da parte le polemiche che avevano caratterizzato le ultime settimane di aprile.
Tutto sotto controllo, dunque? Neanche per sogno. Tralasciando il decreto Rilancio (di cui abbiamo abbondantemente parlato qui), abbiamo assistito a una serie di aperture progressive, ma soprattutto a un generale rilassamento, a un clima da "liberi tutti" che ha trascinato con sé gli ultimi dubbi sulla necessità di non allentare prima del tempo le misure di contenimento che hanno determinato il raggiungimento artificiale del picco dei contagi e dunque l'abbassamento di R0 sotto la soglia di sicurezza. Da giorni la discussione si è spostata dal "se e cosa riaprire" al "come fare per riaprire tutto e subito". E l'attenzione è stata catalizzata dai diversi protocolli di sicurezza firmati di volta in volta da governo, Regioni, INAIL, associazioni di categoria e sindacati: un lavoro necessario e fondamentale, precondizione di qualunque ragionamento sulla ripartenza.
La domanda che nessuno sembra porsi più è quella sulla sussistenza o meno delle condizioni per abbandonare velocemente la fase 2 e passare al liberi tutti (perché di quello stiamo parlando, con le ultime limitazioni che dovrebbero cadere nel giro di un paio di settimane). Cui andrebbe aggiunta la solita questione di fondo: siamo pronti per tornare alla normalità, o almeno siamo attrezzati per la convivenza con il Covd-19?
Dei ritardi e degli errori di queste settimane abbiamo parlato a lungo, così come della necessità / urgenza / emergenza di mettere in campo un serio meccanismo per implementare le tre T (trace, test and treat) e di procedere in maniera spedita con le analisi a campione: questioni fondamentali, rimaste praticamente sul tappeto o affidate alla buona volontà delle singole Regioni. Tutto ciò nonostante un ottimo piano del governo (basato su una serie di documenti del Comitato Tecnico Scientifico e formalizzato da un decreto del ministero della Salute), che sembrava indicare un percorso chiaro per le riaperture e i “passaggi di fase”, vincolandoli a un monitoraggio stringente non solo del quadro epidemiologico su base regionale e provinciale, ma anche dello stato del sistema sanitario e dei singoli presidi territoriali. Invece, a poche ore dalle riaperture, i dati del monitoraggio non si conoscono ancora, l’ISS ha annullato la conferenza stampa in cui avrebbe dovuto presentarli e spiegarli e alcune Regioni sono state richiamate dal governo proprio perché non li hanno ancora comunicati. Restano solo i dati giornalieri sui contagi, che mostrano certo trend positivi, ma anche Regioni ancora in piena crisi (la Lombardia continua a essere un mistero irrisolto e a presentare falle clamorose nel proprio sistema sanitario) e un bilancio di deceduti che è molto più grave del previsto.
Che ci siano le condizioni per aperture indiscriminate e "identiche" su tutto il territorio nazionale è ipotesi molto controversa, che lascia perplessi anche i governatori delle Regioni. Così come molto discutibile appare l'idea che i tempi siano maturi per poter consentire il ritorno al lavoro in tutta sicurezza di milioni di persone. Oltre due mesi di lockdown e di restrizioni alle libertà individuali (alcune delle quali intollerabili e incomprensibili, siamo d'accordo) sono un peso insostenibile per gli italiani, siamo d'accordo, ma l'uscita dalla crisi deve e può avvenire solo secondo percorsi sicuri, trasparenti e logici. Non dettati dall'emotività o, peggio, da pressioni di gruppi di interesse.
Ricapitolando: il governo aveva deciso di abbandonare gradualmente il lockdown a patto che il monitoraggio di 21 parametri desse risultati soddisfacenti. Ora, invece, si riapre tutto (il decreto sarà questo), prima ancora di conoscere i risultati di tale monitoraggio e addirittura si immagina di accelerare il ritorno alla normalità dai primi giorni di giugno (consentendo ad esempio viaggi interregionali, balneazione, gite nelle seconde case…). Con le mascherine, della cui efficacia dubita lo stesso CTS ("permangono incertezze sul valore dell’efficacia dell’uso di mascherine per la popolazione generale dovute a una limitata evidenza scientifica"), il distanziamento sociale (con tutte le problematiche che comporta), le raccomandazioni di carattere generale: insomma, niente che non sapessimo o che non potessimo fare settimane fa. Un enorme salto nel buio.