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Elezioni politiche 2022

La destra continua a parlare di minaccia gender, ma serve solo per togliere diritti a chi non ne ha

La campagna elettorale è appena iniziata ma Salvini e Meloni hanno già cominciato a parlare di minaccia gender. Di cosa parlano, quando ne parlano. Ma soprattutto, perché ogni volta che ne parlano allontanano nuovi diritti per chi non ne ha.
A cura di Jennifer Guerra
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“Gender” è tra le parole che più dovremo sentire in questa campagna elettorale. E sebbene quando si parla di parità di genere o di diritti LGBTQ+ qualcuno deve sempre ricordare che “le priorità sono ben altre”, dobbiamo aspettarci un bombardamento mediatico ancora più intenso proprio su questi temi. Pochi giorni fa Matteo Salvini a un comizio sprecava il suo tempo prezioso per prendersela con gli appelli a scuola fatti per cognome (come si fa dall’alba dei tempi) “per non discriminare chi si sente fluido”. E sempre per la serie “ci sono cose più importanti a cui pensare”, il Senato ha respinto un emendamento di Alessandra Maiorino per inserire le cariche al femminile nella comunicazione istituzionale. Un tema talmente divisivo – che avrebbe potuto risolversi in cinque minuti – che Fratelli d’Italia ha chiesto di poter votare in segreto.

Anche se è sulla bocca di tutti, non è facile spiegare che cosa sia il “gender”. Questo termine ha infatti una storia particolare. È nato tra gli anni Ottanta e Novanta negli ambienti accademici queer e femministi per riferirsi non più soltanto alla dimensione biologica del sesso, ma a quel più ampio sistema di norme sociali e culturali che normano l’idea di “maschio” e “femmina”. Nel 1995 il Vaticano, che partecipava alla Conferenza mondiale sulle di Pechino delle Nazioni Unite, cominciò ad allarmarsi per l’uso che in quella sede veniva fatto della parola “gender”. Gli studiosi cattolici si erano infatti convinti che dietro l’uso di questo termine si nascondesse una sorta di piano per distruggere la naturalità dell’uomo e della donna. Per questo dagli anni Duemila si è cominciato a parlare di “ideologia” o “teoria gender”, che nel suo libro L’ipotesi neocattolica il sociologo Massimo Prearo definisce “un nodo teorico-politico […] in contrasto con la dimensione naturale e trascendente, o antropologica, del sesso, del maschile e del femminile, dell’eterosessualità o della famiglia (eterosessuale)”. 

Quando qualcuno antepone alla parola “gender” (che significa semplicemente “genere”) parole come “ideologia” o “teoria”, allude quindi all’ipotesi cospirazionista che vi sia la volontà ben precisa da parte di una non meglio specificata lobby gay di “cancellare i maschi e le femmine” e di “distruggere la famiglia naturale”. Con l’avanzare dei diritti LGBTQ+ negli ultimi anni, si è creata infatti una vera e propria mobilitazione anti-gender, che ha avuto il suo exploit con la discussione della legge sui matrimoni tra persone dello stesso sesso in Francia, tra il 2012 e il 2013. Anche in Italia questo movimento, che raccoglie intorno a sé anche l’attivismo antiabortista, è molto forte e ha trovato il proprio sodalizio politico nella Lega e, ora, in Fratelli d’Italia. Con il governo Conte I – che patrocinò il Congresso delle Famiglie a Verona, un evento che riuniva i principali esponenti anti-gender mondiali – si è avuto un assaggio di questa vicinanza ideologica, specialmente da parte dell’ex ministro della Famiglia Lorenzo Fontana e della rilevanza assunta dal senatore Simone Pillon, infaticabili fustigatori del gender.

Finora la battaglia contro il gender si è consumata soprattutto sulla scuola, in nome della “libertà educativa”, con l’attivazione di “osservatori gender” e di “numeri verdi anti-gender”. L’allarme scattò con la riforma della Buona Scuola del 2015, che introdusse l’attuazione di programmi sulla parità di genere nelle scuole, ma che molti genitori e associazioni interpretarono come un via libera all’“indottrinamento” gender. Il Ministero fu costretto a diramare una nota e delle linee guida in cui spiegava l’estraneità delle nuove disposizioni al gender. È però probabile che nei prossimi tempi la discussione si sposterà soprattutto sui diritti della comunità transgender, come ha già in parte dimostrato il dibattito sul ddl Zan e in particolare sulla definizione di identità di genere presente nel testo della legge. Alle audizioni di fronte alla Commissione Giustizia, diversi relatori ravvisarono nella legge il pericolo di diffondere l’“ideologia gender”. Oggi, mentre sempre più Paesi cambiano la loro legislazione sulla transizione eliminando la patologizzazione delle persone trasngender, gli attivisti anti-gender diffondono senza sosta allarmismi sui “bambini trans”, la “cancellazione delle donne” e il “self-id”. Negli Appunti per un programma conservatore di Fratelli d’Italia, ad esempio, si scrive che “è veramente complicato costruire qualcosa se le fondamenta sono ‘fluide’, per es. quando qualcuno vuol convincere, con minaccia di sanzione penale, che essere maschi o femmine non è qualcosa di definito, ma dipende dall’autopercezione che ciascuno ha di sé stesso”.

Tutta questa mobilitazione contro il gender ha ovviamente ripercussioni importanti sulla vita delle minoranze e, in particolare, della comunità LGBTQ+. Come ha dimostrato il lungo lavoro di inchiesta del Forum parlamentare europeo per i diritti riproduttivi, questi gruppi – che ricevono finanziamenti ingenti dalla destra conservatrice americana e dagli oligarchi russi – fanno lobbying in tutta Europa per far approvare o impedire la promulgazione di leggi di loro interesse. Per fare un esempio, l’istituto di cultura legale polacco Ordo Iuris ha costruito la propria fama sull’opposizione alla “lobby gay” e al gender. Oggi è un consulente del governo che ha spinto la Polonia a vietare l’aborto, a istituire le zone «LGBTQ free», a equiparare l’educazione sessuale alla pedofilia e la fuoriuscita dalla Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne. Quest’ultima verrà sostituita con un testo, proposto da Ordo Iuris, intitolato “Sì alla famiglia, no al gender”.

Possiamo sorridere delle esagerazioni di chi vede “gender” ovunque, ma non dimentichiamoci che mentre si creano questi allarmismi l’Italia resta tra i Paesi europei col minor numero di diritti per la comunità LGBTQ+. E finché si continuerà a convincere la gente che questa ideologia è una minaccia concreta, le cose non possono che peggiorare.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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