La deputata Guerra chiama Mulé “signora presidente”: “Basta rivolgersi alle donne al maschile”
"Se lei ci tiene al suo genere, io tengo al mio. Basta rivolgersi a noi donne con appellativi maschili". A metterlo in chiaro, prendendo la parola durante la discussione sulla Manovra alla Camera, è la deputata del Partito democratico, Maria Cecilia Guerra. Rivolgendosi al presidente di turno, Giorgio Mulé, di Forza Italia, Guerra lo ha chiamato "Signora presidente", un appellativo che lui non ha gradito. La sua reazione, del resto, serviva esattamente a rimarcare un punto: perché in Parlamento c'è ancora chi si rivolge alle colleghe definendole al maschile, come "deputato" piuttosto che "senatore"?
Guerra, in particolare, si riferiva all'appellativo dato dal deputato di Fratelli d'Italia, Marco Perissa, alla leader dem, Elly Schlein. Perissa non l'ha chiamata "segretaria" – come vorrebbe la lingua italiana – ma "segretario".
"Il deputato Marco Perissa ha parlato della segretaria del mio partito chiamandola al maschile ritenendo che questa sia una scelta che a lui compete. Quindi se è permesso rivolgersi a una donna con appellativo maschile, allora è consentito anche a me rivolgermi a lei al femminile a meno che non richiami tutti quelli che continuano a chiamare le donne al maschile. Lei tiene al suo genere, io tengo al mio", ha spiegato Guerra.
Da parte sua, Mulé, dopo essersi sentito appellare al femminile, aveva risposto: "Onorevole Guerra, avrei qualcosa da ridire. La mia identità è quella e se si rivolge a me lo faccia come presidente, non si può rivolgere a me come ‘signora presidente'".
La questione della correttezza di genere nel linguaggio è un tema particolarmente discusso in questa legislatura, soprattutto da quando Giorgia Meloni ha chiesto espressamente di essere chiamata al maschile, "il presidente del Consiglio". Appena qualche settimana fa una settantina di parlamentari ha scritto una lettera al presidente del Senato, Ignazio La Russa, in cui chiedeva che a Palazzo Madama venisse sempre garantito il "rispetto del linguaggio di genere" e che fosse "riconosciuto il diritto di ogni senatrice ad essere chiamata senatrice e non senatore".