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Opinioni

La Cop 26 di Glasgow è l’ultima occasione per arginare la crisi climatica

Sono passati 50 anni dalla conferenza di Stoccolma e il mondo in cui viviamo è molto cambiato: tante occasioni sono state sprecate, tanti punti di non ritorno superati. A Glasgow si terrà la 26esima Conferenza delle Parti (COP26), dove i rappresentanti di quasi duecento governi sono chiamati ad aggiornare il proprio impegno nella riduzione di emissioni.
A cura di Fabio Deotto
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(Ph by Christopher Furlong/Getty Images)
(Ph by Christopher Furlong/Getty Images)

"È chiaro che la crisi ambientale che il mondo si trova ad affrontare altererà profondamente il futuro destino del nostro pianeta. Nessuno di noi, quale che sia il suo status, il suo potere o le circostanze in cui vive, potrà evitarne le ricadute". Potrebbero essere tranquillamente parole pronunciate durante una delle tante manifestazioni degli ultimi mesi, invece le ha pronunciate Indira Gandhi quasi 50 anni fa, a Stoccolma, durante quello che oggi viene ricordato come il primo summit ONU per la tutela ambientale. Era il 1972 e il mondo era ancora spaccato in due dalla Guerra Fredda, tanto che Cina e Russia disertarono il summit per protestare contro l'esclusione della Germania Est. Il termine “riscaldamento globale” era stato usato per la prima volta solo un anno prima e, sebbene si conoscessero i rischi dell'aumento della CO2 atmosferica da almeno 10 anni, il cambiamento climatico ancora non era protagonista del discorso sulla tutela ambientale.

50 anni dopo ci apprestiamo ad aprire i lavori di un altro summit epocale. A partire dal 31 ottobre, migliaia di persone, tra capi di stato, rappresentanti di organizzazioni non-governative e inter-governative, giornalisti, reporter e attivisti si riuniranno a Glasgow per la 26esima Conferenza delle Parti (COP26), da molti ritenuta l’ultima occasione per arginare operativamente una crisi climatica ormai entrata nel suo vivo. E se oggi le parole di Indira Gandhi suonano ancora perfettamente attuali, è perché in decenni di summit, COP e accordi siglati abbiamo collezionato una quantità sconfortante di false partenze

Ottimi presupposti per affrontare in tempo il problema

In realtà, nonostante le defezioni, la Conferenza di Stoccolma rappresentò un buon punto di partenza per cominciare a definire una governance globale delle questioni ambientali. Fu in quel contesto che venne fondato il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), un’organizzazione internazionale che negli anni a venire avrebbe ottenuto risultati importanti, (non ultimo il Protocollo di Montréal nel 1987, che ha messo al bando i gas responsabili del buco nell’ozono), e che ancora oggi ricopre un ruolo strategico nella lotta al cambiamento climatico.

Ma perché la questione climatica cominciasse a imporsi nel discorso ambientale si dovette aspettare il 1979, quando a Ginevra venne organizzata la prima World Climate Conference, che avrebbe spianato la strada per la creazione di quello che oggi è il foro scientifico più autorevole sulla crisi climatica, l’IPCC, che periodicamente stila rapporti sulla situazione climatica, le ricadute previste e le strategie di mitigazione possibili. Lo scorso 9 agosto l’IPCC ha pubblicato la prima parte del suo 6° rapporto di valutazione, da cui emerge come i cambiamenti climatici abbiano già cambiato irreversibilmente il volto del pianeta, e siano destinati a peggiorare, a meno che i governi non intervengano per ridurre notevolmente la quantità di carbonio immessa ogni anno nell’atmosfera. È su queste basi che i delegati lavoreranno a Glasgow. Il rapporto mostra fuori da ogni dubbio come ci troviamo di fronte a una minaccia esistenziale, ci sarebbero dunque tutti i presupposti perché si arrivi ad accordi condivisi e vincolanti. Ma ci sono anche i presupposti perché si arrivi ancora una volta a un nulla di fatto. Come vedremo fra poco, infatti, la storia dei COP è costellata di buchi nell’acqua.

Da Stoccolma a Kyoto (passando per Rio)

Innanzitutto, è il caso di ricordare che se ogni anno capi di stato da tutto il mondo si ritrovano a discutere di cambiamenti climatici è per via delle decisioni prese a Rio de Janeiro nel 1992, nella prima conferenza di capi di stato sull’ambiente. Durante i lavori, una ragazzina canadese di nome Severn Cullis-Suzuki venne chiamata sul palco, dove lesse un discorso che sarebbe entrato nella storia: "Abbiamo viaggiato per 5000 miglia, abbiamo speso i nostri soldi per venire da voi adulti a dirvi che dovete cambiare – furono le prime parole di Suzuki -. Vengo qui senza secondi fini, sono qui per lottare per il mio futuro. E perdere il futuro non è come perdere un’elezione, o qualche punto in borsa. […] Siamo una famiglia di 5 miliardi di individui, o meglio di 30 milioni di specie, e i confini e i governi non cambieranno mai questo fatto".

Suzuki aveva 12 anni, e 3 anni prima aveva fondato un’organizzazione ambientalista insieme ad altri suoi coetanei. Era la prima volta che una rappresentante delle nuove generazioni prendeva parola in un contesto simile. La sua lucidità e la sua determinazione fecero breccia, tanto che il giorno dopo era già diventata “la ragazzina che zittì il mondo per 6 minuti”. Ma all’epoca non c’erano gli strumenti di comunicazione virale di cui disponiamo oggi, e soprattutto le ricadute della crisi ambientale erano assai meno visibili e dunque raccontabili, di conseguenza la voce di Suzuki faticò a uscire dal perimetro della conferenza, e passati quei 6 minuti, il suo appello cominciò subito a scivolare nelle retrovie.

Il “summit della Terra”, come oggi viene ricordato, portò comunque a risultati incoraggianti: venne approvata l’Agenda 21, un articolato programma per lo sviluppo sostenibile, e venne istituita la Convenzione sulla diversità biologica, il cui 15esimo appuntamento, aperto poche settimane fa, si chiuderà questo aprile a Kunming, in Cina. Ma soprattutto, fu istituita la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) che stabiliva un impegno non vincolante da parte di 154 nazioni a ridurre le emissioni serra al fine di “impedire una pericolosa interferenza antropogenica con il sistema climatico terrestre” e fissava una Conferenza delle Parti (COP) annuale per aggiornare questo impegno.

Ora, è il caso di concentrarsi su quel “non vincolante”, perché tornerà utile a capire cosa è andato storto.

Dopo le prime due COP di Berlino (1995) e  Ginevra (1996), il primo vero banco di prova fu l’appuntamento di Kyoto, nel 1997, dove venne ratificato l’omonimo Protocollo, che tra le altre cose imponeva una riduzione media delle emissioni serra del 5% rispetto ai valori del 1990, imponendo il grosso di questa riduzione alle nazioni più industrializzate entro il 2012; inoltre un discusso sistema di crediti di emissione, che puntava a sfruttare i meccanismi di mercato per consentire ai paesi industrializzati di ottemperare ai propri obblighi realizzando progetti di sviluppo economico nei paesi meno industrializzati.

Nonostante questi salvacondotti, l’accordo non ottenne grandi risultati. E non solo perché gli Stati Uniti, che all’epoca erano responsabili di un terzo delle emissioni globali, si sfilarono presto dall’accordo, ma anche perché il protocollo entrò in vigore solo nel 2005, quando con la firma della Russia si superò la soglia minima di partecipanti. Arrivati al 2012, 36 tra i paesi più industrializzati avevano aderito a Kyoto e attuato delle riduzioni (Italia compresa, che le ridusse del 4,5%, a fronte dei 6,5 promessi). Non fu lontanamente sufficiente: tra il 1990 e il 2010 le emissioni globali sarebbero comunque cresciute del 45%.

Il fallimento di Copenaghen e il trionfo di Parigi

Da Kyoto usciva un mondo diviso in due: da un lato i paesi industrializzati, dall’altro quelli che allora venivano chiamati “paesi in via di sviluppo”. Che il protocollo sottoscritto non fosse il migliore degli strumenti possibili, e che presto sarebbe risultato obsoleto, era chiaro più o meno a chiunque, ma era il primo documento che imponeva obblighi di riduzione, perciò nei dieci anni successivi le COP concentrarono buona parte dei lavori sull’implementazione e l’estensione di questo protocollo.

A marzo del 2007 uscì Quarto Rapporto IPCC, che sanciva come “inequivocabile” il riscaldamento del sistema climatico e ne imputava “almeno il 90%” alle attività umane. Rispetto a dieci anni prima, la questione climatica era ormai il problema più impellente e trasversale. Era evidente che servisse un nuovo accordo globale, un accordo migliore, che pur riconoscendo la necessità di un maggiore impegno da parte delle nazioni responsabili del grosso delle emissioni, estendesse gli obblighi anche ad altri paesi in rapida via di industrializzazione, come il Brasile, la Cina e l’India. Si decise che il momento migliore per ratificare un accordo di questo tipo fosse la COP15 di Copenaghen.

È sulla base di queste aspettative che il 7 dicembre del 2009 si aprirono i lavori della COP15, ma nonostante tutte le buone parole, due settimane dopo la montagna sovranazionale avrebbe partorito il proverbiale topolino. Da Copenaghen emerse un accordo politico privo di un vero peso specifico, che non poneva vincoli né obiettivi concreti, se non quello di sforzarsi di “mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi centigradi, in un contesto di equità e di sviluppo sostenibile”.

Seguirono altri anni di false partenze, dove non si raggiunse nessun traguardo importante, se non l’impegno, da parte delle nazioni industrializzate, di investire ogni anno 100 miliardi di dollari entro il 2020 per aiutare le nazioni del sud del mondo a ridurre le emissioni e adattarsi ai cambiamenti climatici (promessa, anche questa, in parte disattesa). Per questo fu abbastanza sorprendente quello che successe nel dicembre del 2015.

Dopo lunghi negoziati, alla COP21 di Parigi i rappresentanti di 175 nazioni sottoscrissero un accordo che imponeva la necessità di mantenere il riscaldamento ben al di sotto dei 2 gradi, possibilmente entro gli 1,5, oltre a introdurre linee guida per l’adattamento e la finanza climatica. Questa volta, la fine dei lavori venne salutata con esultanza dai delegati presenti: a differenza degli altri accordi, infatti, quello di Parigi poneva finalmente dei principi vincolanti; cosa che avrebbe fatto sì che alcune battaglie climatica potessero essere vinte in un’aula di tribunale (pensiamo anche solo alla sentenza epocale dello scorso giugno, quando una corte olandese ha condannato Shell a ridurre le proprie emissioni del 45% entro il 2030).

Oggi però sappiamo che anche l’Accordo di Parigi non è sufficiente. Le quote di riduzione previste dalle singole nazioni sono ancora troppo poco ambiziose. Questo martedì l’UNEP ha pubblicato un rapporto che mostra come, se anche tutte le nazioni mantenessero le promesse, l’aumento di gas serra sarebbe comunque sufficiente a farci superare i 2 gradi di riscaldamento globale, fino a sfiorare i 2,5. Una prospettiva che è fondamentale evitare, se vogliamo che questo mondo rimanga vivibile per la maggior parte delle persone.

Glasgow, l’ultima occasione

Sono passati 50 anni dalla conferenza di Stoccolma e il mondo in cui viviamo è molto cambiato: tante occasioni sono state sprecate, tanti punti di non ritorno superati. Le parole di Indira Gandhi erano rivolte a 4 miliardi di persone, in un pianeta di 0,26 gradi più caldo rispetto ai livelli pre-industriali, con una concentrazione atmosferica di CO2 pari a 338 ppm; oggi siamo 8 miliardi, il riscaldamento globale è di 1,2 gradi, l’anidride carbonica nell’aria a giugno ha sfondato quota 420 ppm e ogni settimana abbiamo prove di come quel singolo grado di riscaldamento possa risultare catastrofico.

A Glasgow i rappresentanti di quasi duecento governi sono chiamati ad aggiornare il proprio impegno nella riduzione di emissioni, impegno che stando all’ultimo rapporto IPCC deve consentire di scendere di almeno il 49% rispetto ai livelli del 2017 entro il 2030, per poi raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Questo significa che non solo le parti dovranno accordarsi su obiettivi di riduzione più ambiziosi, ma accelerarne l’implementazione così che dei passi importanti vengano compiuti già nei prossimi 9 anni. Uno su tutti: mandare definitivamente in pensione il carbone, ad oggi la forma più inquinante di idrocarburo, responsabile del 45% delle emissioni legate all’energia. Non solo, dovranno decidere come e a chi fare pagare i 4.000 miliardi di dollari necessari per la decarbonizzazione di qui al 2030, e quali risorse stanziare per  l’adattamento dei paesi più colpiti dalle ricadute della crisi climatica (che in molti casi sono i meno responsabili a livello di emissioni).

Alla Conferenza di Stoccolma del 1972, il Primo Ministro Svedese Olof Palme fece una dichiarazione che strideva con le parole di Indira Gandhi: “L’ambiente umano cambierà sempre,” disse “lo sviluppo continuerà, ci sarà crescita, questo non può e non deve essere evitato. La giusta domanda è in quale direzione ci svilupperemo, con quali mezzi supporteremo la crescita, quali qualità vogliamo ottenere e quali valori vogliamo che guidino il nostro futuro”.

Oggi queste parole suonano ancora più fuori fuoco, eppure la prospettiva di una “crescita verde”, ossia l’idea che si potrà trovare una soluzione per perseguire una crescita economica indefinita in un mondo dalle risorse finite, continua a sedurre molti di quelli che siedono nelle varie stanze del potere.

Nel documento presentato dalle delegazioni giovanili di Youth4Climate alla pre-COP di Milano emergono alcune potenziali linee guida, tra cui l’interruzione dei finanziamenti all’industria fossile da parte di attori non-statali, un coinvolgimento attivo delle nuove generazioni nei processi decisionali, un programma di ripresa post-pandemico in linea con gli accordi di Parigi e l’inclusione del turismo tra i settori da riformare per raggiungere gli obiettivi climatici.

Si tratta di punti programmatici ragionevoli, e in realtà tutt’altro che utopistici, ma considerando le titubanze che grandi emettitori come USA, Cina e Australia stanno dimostrando nell’avviare processi di decarbonizzazione, le delegazioni giovanili a Glasgow dovranno ancora una volta alzare la voce per farsi ascoltare. Del resto, più che una bozza d’accordo, il loro documento va a tratteggiare, un’idea di mondo diversa, un mondo in cui le pretese economiche passino in secondo piano rispetto alle necessità ecologiche, e in cui alle parole “crescita” e “sviluppo” venga attribuito un significato diverso da quello, prevalentemente monetario, che gli diamo ora. Per molto tempo è stato un mondo possibile, ora è necessario.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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