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La Caserma, ora la Rai cavalca la retorica militarista dell’obbedienza e del dovere

Tra ordini, prove e punizioni, il nuovo docu-reality di Rai2 ripropone una retorica militarista fuori tempo massimo: che l’obbedienza non sia una virtù né un percorso di crescita lo dimostrarono ragazzi, della stessa età dei concorrenti del programma televisivo, che all’addestramento militare preferirono il carcere.
A cura di Roberta Covelli
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Spese Militari esercito italiano

Dopo il successo de Il Collegio, su Rai2 arriva il nuovo docu-reality, La Caserma, in cui un gruppo di ragazzi tra i 18 e i 23 anni dovrà vivere per quattro settimane secondo regole militari. La caricatura autoritaria strizza l’occhio a diverse generazioni, riproponendo i classici conflitti basati su ribellione e repressione, confermando stereotipi, inscenando traumi di successo e presentando un gruppo di concorrenti eterogeneo quanto tipizzabile: vanitosi, secchioni, mammoni, ribelli, perfettamente incasellati nel ruolo necessario alla buona riuscita del programma.

Difficile non intravedere nella scelta del tema alla base del reality una retorica militarista che periodicamente si ripropone, dalla richiesta di ripristinare la leva militare ai tentativi di affascinare i più giovani con divise e disciplina. Dopotutto, lo stesso gabinetto del Ministero della Difesa, nel programma di comunicazione del 2015, si prefissava un’attività di "social recruiting", oltre che di rinnovamento del “brand Difesa”, anche attraverso “l’osmosi con il mondo dei media”.

Così, tra rimproveri, punizioni e narrazione a base di prove tra paure e successi, La Caserma rinvigorisce la presunta carica educativa dell’esperienza militare nella formazione della persona. E se nello spazio pubblicitario non mancano anticipazioni sulla programmazione Rai dedicata alla Giornata della Memoria, basta tornare al docu-reality militarista per sentire i ragazzi, velocemente trasformati in reclute, giungere alla conclusione tipica dell’addestramento, "una cosa devi fare: obbedire".

Eppure il superamento della leva obbligatoria, o almeno la previsione del servizio civile alternativo a quello militare, si deve a persone che rifiutarono di obbedire e a cui la storia diede ragione. "L’obbedienza non è più una virtù", spiegava don Milani ai giudici chiamati a condannarlo per apologia di reato, "ma la più subdola delle tentazioni". Erano gli Anni Sessanta e a Gaeta, nel carcere militare, erano prigionieri ragazzi che si erano rifiutati di diventare reclute e servire l'Esercito, mostrando un valore e un coraggio più alti, più limpidi, meno comodi di quelli basati sull’obbedienza. Prima di loro, un giovane, Pietro Pinna, la stessa età dei concorrenti del reality di Rai2, rifiutava di prestare il “servizio dell’uccisione militare”, ritenendo che accettare di addestrarsi fosse un elemento di preparazione, anche solo teorica, della guerra, che l’Italia ripudia nella sua Costituzione e che comunque egli, nella sua coscienza, considerava un atto di dissipazione morale inaccettabile, a cui non intendeva partecipare.

Non c’è viltà nella disobbedienza, anzi, c'è una crescita coraggiosa nell’obiezione di coscienza e nella nonviolenza. "La nonviolenza va annunciata a coloro che sanno morire, non a coloro che temono la morte" – spiegava Gandhi – "Proprio come nell’allenamento alla violenza uno deve imparare l’arte di uccidere, così nell’allenamento alla nonviolenza uno deve imparare l’arte di morire. Chi non ha superato ogni paura, non può praticare la nonviolenza alla perfezione".

Che cosa dà più dignità, allora, la divisa o subire la repressione nel rifiutarsi di accettarla? L’obbedienza agli ordini, la loro "esecuzione rapida ed efficace", per citare l’istruttore capo delle nuove reclute in tv, o la coscienza di seguire un’etica della responsabilità, personale e di comunità, in grado di assumere su di sè anche il peso di sanzioni ingiuste, del carcere, della condanna, per affermare un principio più alto?

Ragazzi, zoomer, telespettatori di ogni età, per "provare a fare di voi degli uomini o delle donne migliori", come progetta l’istruttore capo, non serve né basta alzarsi all’alba per cantare l’inno d’Italia, serve avere il coraggio di preferire la coscienza all’obbedienza, lo sforzo di basare il proprio comportamento su un’etica: più che nella forma militare, è un esempio che si trova nella sostanza nonviolenta. Sarebbe il caso che anche la Rai se ne rendesse conto.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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