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La campagna elettorale in diretta social su Facebook

Lo streaming live sul social network più frequentato al mondo si presta ad essere un perfetto mezzo di comunicazione per il populismo 2.0.
A cura di Marcello Ravveduto
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In principio era la diretta streaming del Movimento 5 Stelle. Poco più di tre anni fa il povero Bersani appariva come un dinosauro di fronte al plotone di esecuzione dei pentastellati che provavano a ridicolizzarlo di fronte al pubblico interconnesso. Quando toccò a Letta le cose andarono meglio. Forse per l’età o per un atteggiamento più spigliato nell’uso della tecnologia, il Presidente del Consiglio incaricato era capace di stare al gioco della gogna mediatica al quale volevano sottoporlo i grillini.

A quel tempo (in apparenza lontanissimo, in realtà molto prossimo) la diretta streaming era ancora affare di stregoni del web che maneggiavano piattaforme di trasmissione video a fini di propaganda politica. Anche il pubblico era selezionato, ristretto a quei pochi, rispetto alla massa degli internauti, che aveva confidenza con quella modalità di comunicazione. Proprio la diretta streaming sembrava assegnare al M5S il ruolo di forza politica in grado di tradurre la rivoluzione digitale in rivoluzione parlamentare, costringendo tutti gli altri partiti a correre dietro le innovazioni introdotte dai seguaci di Casaleggio. Da un lato i vecchi politicanti abituati ai rituali di rappresentanza dei talk show televisivi, dall’altro i pentastellati annunciatori della democrazia (video)diretta.

Nel giro di un biennio sono cambiate le carte in tavola. I santoni della “stream politic” sono stati annientati dal mercato della connessione mobile: il traffico di video su smartphone e tablet crescerà del 45% ogni anno nei prossimi cinque anni e rappresenterà il 55% di tutto il traffico dati mobile entro il 2020. Ciò significa che gli operatori di telecomunicazione, i produttori di device e le piattaforme con contenuti video avranno bisogno di connessioni mobili sempre più potenti per supporti palmari sempre più performanti, dal punto di vista grafico e operativo.

Si prevede che tra cinque anni consumeremo tra i 18 e i 22 gygabite al mese. Gli addetti ai lavori sono pronti a scommettere che la maggior parte del traffico si incanalerà verso Youtube (che già oggi raccoglie il 70%), Netflix e altre piattaforme streaming. Per questo tutti i big player del settore (Google, Microsoft, Cisco ecc.) stanno progettando nuovi format multimediali online in grado di funzionare "su dispositivi di ogni tipo e per utenti di tutto il mondo". Il colosso di Menlo Park si è mosso prima degli altri offrendo gratuitamente la possibilità di andare live in video. La trasformazione è stata immediata: da strumento utilizzato da una minoranza di utenti esperti è diventato congegno di personificazione contestuale. Se prima veniva sfruttato come un servizio televisivo on demand, che trasportava l’internauta curioso e preparato in ambienti non accessibili a tutti o in situazioni estreme da raccontare, oggi, grazie a Facebook, è assurto ad ego narrazione collettiva.

Lanciare la diretta streaming dal proprio profilo significa che si è accettata la dimensione egoistica della piattaforma: è il proprietario del profilo che decide come e quando stimolare la sua rete delle relazioni, spostando la centralità della videocomunicazione digitale dal medium broadcast dell’impresa di capitali al socialcast individuale, il cui unico investimento è una stabile connessione in mobilità. Pensate cosa significa in termini di produzione di news. Un esempio? Ricordate il video dell’attentato al Bataclan? È stato realizzato da un cellulare e successivamente caricato in rete. Cosa sarebbe accaduto se l’autore delle riprese avesse mandato il video in diretta dal suo profilo Facebook? La risposta non è così semplice come appare poiché, moltiplicata per milioni di utenti, metterebbe in crisi l’intero sistema dei media e il loro appeal commerciale.

Torniamo alla politica. Lo streaming live sul social network più frequentato al mondo si presta ad essere un perfetto mezzo di comunicazione per il populismo 2.0. Non a caso il primo ad usufruirne, cogliendone tutti i risvolti comunicativi applicabili all’azione di governo (contatto diretto con i “seguaci”, creazione del consenso virtuale, raggiungimento di audience trasversali, amplificazione del messaggio disintermediato, individualizzazione del rapporto con lo spettatore, uso pubblico della tecnologia digitale, dimostrazione della volontà modernizzatrice, attuazione di un monologo dialogante, costruzione della leadership dal volto umano, solleticamento del voyerismo dei cittadini), è stato Matteo Renzi. Il social Premier cattura l’interesse dell’utente medio di Facebook trascinandolo nel suo mondo: ovunque sia, grazie ad un supporto mobile, può entrare nelle stanze di Palazzo Chigi e credere di interloquire direttamente con il Presidente del Consiglio. Un tu per tu che si replica per migliaia di contatti affascinati dal gioco dell’uomo qualunque che può partecipare alla recita del potere.

Il caminetto di Renzi, più che una procedura di accountability, è uno svago gigionesco che serve a rafforzare la sua posizione di Premier non eletto in continua ricerca della sintonia elettorale. Il Presidente del Consiglio (segretario del Pd) ha sdoganato una pratica che aumenta esponenzialmente la personificazione della politica. Esemplare, da questo punto di vista, è l’abuso che ne fa Salvini. Le sue dirette sono quasi sempre in campo esterno con la sua figura in primo piano all’interno di contesti critici su cui polemizzare. In questo caso non c’è nemmeno l’accenno di un dialogo con i commentatori e gli spettatori: l’ipse dixit virtuale sopravanza qualsiasi possibilità di interlocuzione digitale. In entrambi i casi, con modalità diverse, ci troviamo di fonte, ad un “selfie in motion”, un autoscatto in movimento al quale pensiamo di contribuire ignorando che il protagonista rimane comunque il politico e il suo ambiente. Il social streaming più che aprire le porte alla democrazia diretta sta edificando il populismo digitale.

Il candidato del Pd a Roma, Roberto Giachetti, pubblica un video mentre cucina (con tanto di richiamo sul profilo Twitter); anche Giorgia Meloni annuncia, tramite agenzie di stampa, l’utilizzo dello stesso strumento; la candidata Cinque Stelle di Torino usa la diretta per «per fare il punto della situazione sulla campagna elettorale»; il candidato del centrosinistra di Varese espone il programma parlando ai suoi elettori su Facebook; l’ex assessora di Napoli, Alessandra Clemente, gira per la città mostrando luoghi e persone collegati ai temi della sua campagna; il candidato Pd di Castellamare risponde in diretta alle domande degli elettori coniando lo slogan “Dillo a Toni”; a Busto Arsizio la batteria di candidati in diretta copre tutte le liste in campo; persino in un piccolo paese come Giffoni Vallepiana (Sa) uno dei candidati sindaci si diverte con l’intervista live (quanti compaesani lo avranno ascoltato?).

Insomma è un fiorire di video rappresentazioni elettorali che, in qualche caso, ci fanno rivalutare la fissità e il mutismo del vecchio manifesto e gli spot elettorali degli anni Ottanta. Nell’era di Berlusconi la televisione fu un’arma strategica che conquistò milioni di voti spoliticizzati alla causa del cavaliere, oggi nel marasma della rivoluzione digitale, quali effetti potrà avere la nuova propaganda? I nuovi leader virtuali saranno in grado di influenzare il voto della social audience?

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