"Ormai stasera alla giunta delle elezioni saremo davvero all'ultima spiaggia. Auspichiamo tuttora che si faccia di tutto per trovare un'intesa che salvi sia le garanzie dovute ad una personalità come Silvio Berlusconi, sia il governo Letta, che non ha alternative positive". Con queste parole Fabrizio Cicchitto, già capogruppo del Popolo della Libertà alla Camera nella scorsa legislatura e tra i più concilianti nelle prime fasi della crisi legata alla vicenda della decadenza di Berlusconi da senatore, rende esplicito ciò che in molti pensano (e dicono) da tempo: il Governo è al capolinea e, se il Pd insisterà nella linea dell'intransigenza, non accettando il rinvio in attesa del pronunciamento della Corte europea, sarà crisi. Il senso del rinvio chiesto dal Pdl è duplice: da un lato si spera davvero che la Corte Europea metta nero su bianco le perplessità sulla legge Severino, dall'altro serve a far guadagnare qualche mese al Cavaliere. Si punta in primo luogo ad arrivare alla metà di ottobre, quando si avranno lumi sulla pena accessoria connessa al processo Mediaset: con lo sperato annullamento dell'interdizione che potrebbe avere ripercussioni su un eventuale nuovo pronunciamento della Giunta (anche se non sfuggirà come si tratti di una correlazione estremamente forzata).
Ad approfondire il ragionamento sul futuro del Governo ci ha pensato poi il successore di Cicchitto a Montecitorio, Renato Brunetta, che (oltre le parole di rito sulla volontà "di continuare con Letta fino al 2018") profetizza lo scenario alternativo cui starebbero lavorando al Nazareno: "C'è già l'accordo per una maggioranza Pd – Sel più dissidenti del M5S. Sono circa 20, si sanno già anche i nomi". I nomi, Brunetta, come Sonia Alfano e Alessandra Moretti, li sa ma non li fa. Il che ovviamente può voler dire tutto e niente allo stesso tempo. E rende la "maggioranza Pd-Sel-fuoriusciti M5S" l'ennesima boutade di questi giorni. Per una serie di ragioni, tutte strettamente connesse fra loro.
In primo luogo la possibilità che la frattura interna al Movimento 5 Stelle sia così ampia è davvero minima, come ampiamente dimostrato dagli interventi nelle riunioni di gruppo tenute dai grillini in queste settimane. C'è, inutile negarlo, una fronda interna, un nucleo di malpancisti che vedono nelle angosce del Partito Democratico (e nella possibile fine politica di Berlusconi) una occasione storica per portare il Movimento al Governo. Il ragionamento è però tanto semplice quanto in contrasto con lo spirito stesso della mobilitazione a 5 Stelle: non abbiamo i voti necessari e forse non li avremo mai, dunque perché non "costringere" il Pd ad un accordo sui nostri contenuti? Ce ne hanno parlato sia il "nuovo Scilipoti" Orellana che il "ribelle" Campanella, con un ragionamento che ha retto fino all'intervento del capogruppo Morra, secco nel farci capire (qui la nostra intervista) come si trattasse di posizioni isolate e prive di una reale prospettiva politica (oltre che in contrasto con la "linea" del Movimento).
Già, perché ad "impedire" la costruzione di una maggioranza alternativa contribuisce anche la precisa volontà di Giorgio Napolitano di non sacrificare Letta per alleanze improvvisate e non legittimate da numeri sicuri in Parlamento. È già avvenuto con Bersani e non si capisce in base a quale logica il Capo dello Stato possa recedere dal proposito manifestato allora ("mai un Governo a rischio sfiducia") e preparare il terreno a drammatiche elezioni anticipate senza prima aver giocato tutte le sue carte (Governo istituzionale o di scopo).
Infine c'è un altro punto, non meno rilevante. A ben guardare, i primi nemici di una intesa Pd – M5S sono da rintracciarsi all'interno del Pd. Tra quelli che affossarono Prodi costringendo Bersani ad inginocchiarsi davanti a Napolitano. Tra i paladini delle larghe intese che preferirebbero mille volte elezioni anticipate col Porcellum (che riprodurrebbero la stessa situazione attuale, inutile girarci intorno) rispetto all'emarginazione politica. Chiamatelo darwinismo politico, insomma.