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Opinioni

L’Italia del 2015 è ancora “il Paese dei senza”

L’Istat pubblica il rapporto annuale 2015 sulla “situazione del Paese” ed è drammatico il quadro del mondo del lavoro: lavoratori pagati sempre meno, disoccupati sempre più scoraggiati e giovani sempre meno fiduciosi.
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È il rapporto annuale dell’Istituto nazionale di statistica a fotografare in maniera completa la situazione del Paese, sviluppando “una riflessione documentata sul presente dell'Italia”, descrivendo le trasformazioni in corso e analizzando prospettive e potenzialità future. Si tratta di un lavoro enorme, diviso in 5 capitoli tematici: l’evoluzione dell’economia italiana; luoghi, città e territori; il sistema produttivo; il mercato del lavoro; le condizioni di vita e gli aspetti sociali dei territori.

È interessante notare quale sia il quadro d’insieme entro il quale si muove l’indagine dell’Istat. In un contesto di crescita stabile (il ciclo economico internazionale ha mantenuto un ritmo di espansione in linea con quello dell’anno precedente ), sono gli Stati Uniti a trainare la ripresa dei paesi avanzati e tutti gli indicatori lasciano presagire che continuerà la ripresa ciclica nei primi mesi del 2015. Il punto è che il quadro relativo al 2014 mostra per l’Italia ancora una flessione per l’attività economica, con la riduzione del Pil, la continua discesa dell’inflazione e un aumento minimo dei consumi delle famiglie.

Nello specifico, spiega l’Istat:

“La discesa dell’inflazione ha contribuito al lieve recupero dei consumi delle famiglie. La domanda interna ha fornito nel complesso un contributo negativo alla crescita pari a sei decimi di punto. I consumi finali (che includono anche i consumi della Pa) hanno registrato una variazione nulla rispetto all’anno precedente, mentre la spesa per consumi finali delle famiglie è cresciuta in volume dello 0,3 per cento […] Il lieve aumento dei consumi delle famiglie si collega all’andamento del reddito disponibile in termini reali (cioè il potere di acquisto delle famiglie) che, per la prima volta dal 2008, si è stabilizzato […] La propensione al risparmio delle famiglie ha segnato ancora una leggera diminuzione (dall’8,9 per cento del 2013 all’8,6 lo scorso anno)”. Complessivamente poi si registra un leggero aumento del carico fiscale, che per le famiglie “aumentato di tre decimi di punto, salendo al 16,3 per cento, a causa dell’introduzione del Tributo per i servizi indivisibili (Tasi), compensando quasi interamente il calo di quattro decimi del 2013, determinato dall’abolizione dell’Imu sulla prima casa”.

C’è un aspetto importante da sottolineare ed è relativo alla cosiddetta “grave deprivazione materiale”, che indica i nuclei familiari in grave difficoltà economica. Ecco, l’indicatore di grave deprivazione materiale risulta in calo, grazie al miglioramento dei livelli di reddito e alla dinamica inflazionistica favorevole. Ma la situazione continua ad essere particolarmente delicata per i nuclei con “genitori soli” o per le famiglie con 3 figli a carico, ma soprattutto per chi è in cerca di occupazione: infatti risulta in grave deprivazione quasi il 40 per cento delle persone che vivono in nuclei familiari con almeno due persone in cerca di occupazione.

Ed è l’occupazione la vera emergenza del Paese, come confermano anche i dati dell’Istat.  Nel 2014 è cresciuta di 88mila unità l’occupazione, in particolar modo per specifiche tipologie di soggetti: anziani dai 55 ai 64 anni, stranieri, donne e abitanti nel nord del Paese. Il tasso di occupazione complessivo è “pari nel 2014 al 55,7 per cento (due decimi in più rispetto al 2013), che è rimasto stabile per i maschi (64,7 per cento) ma è aumentato (tre decimi di punto in più) per le femmine (fino al 46,8 per cento). La composizione per età ha visto un’ulteriore flessione per i più giovani (-3,1 per cento per gli uomini dai 15 ai 24 anni e -7,1 per cento per le donne); quella geografica ha registrato un aumento dei posti di lavoro nel Nord (+0,4) e nel Centro (+1,8 per cento) mentre nel Mezzogiorno l’occupazione si è contratta (-0,8 per cento)”. La tabella è piuttosto esplicativa:

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Il tasso di disoccupazione risente ovviamente dell’aumento delle persone in cerca di occupazione (+5,5%) e della diminuzione del tasso di inattività complessiva:

 

Un fattore di emergenza sociale spesso poco considerato è rappresentato dalla crescita dei cosiddetti disoccupati di lunga durata:

Nel 2014 chi è alla ricerca di occupazione lo è in media da 24,6 mesi, da 34 se ricerca il primo impiego. Rispetto all’anno precedente, la durata media della disoccupazione è aumentata di 2,3 mesi (quasi tre mesi per chi cerca la prima occupazione). In sette casi su dieci l’aumento delle forze lavoro potenziali nell’ultimo anno è dovuto a chi non cerca lavoro perché ritiene di non trovarlo (+200 mila). Nel 2014 tra gli inattivi che non cercano ma sono disponibili a lavorare, gli scoraggiati sono 1,6 milioni (627 mila in più dal 2008). Considerando il totale degli inattivi di 15-64 anni, gli scoraggiati arrivano a oltre due milioni.

C’è però un aspetto che spesso si tende a sottovalutare in sede di analisi ed è quello relativo alla “qualità del lavoro” e alla consistenza delle retribuzioni. Si parte dalla considerazione che le decisioni degli individui di partecipare o meno al mercato del lavoro sono influenzate dalle aspettative e, soprattutto durante periodi di recessione, sono più complesse che nel tradizionale modello “lavoratore scoraggiato/lavoratore addizionale”. E un ruolo decisivo lo gioca anche la forbice retributiva, che non sempre riflette i cicli economici in corso.

I dati Istat sono decisamente poco incoraggianti: “Le retribuzioni contrattuali per dipendente sono aumentate dell’1,2 percento (rispetto all’1,5 per cento dell’anno prima) segnando l’incremento più contenuto della recente storia economica, mentre le retribuzioni lorde di fatto per unità di lavoro equivalenti a tempo pieno sono cresciute dello 0,8 per cento, a fronte dell’1 percento registrato nel 2013”. Ad influenzare il dato è la quota di dipendenti ancora in attesa dei rinnovi contrattuali, che sfiora il 60 percento ed è di dodici punti percentuali in più rispetto al 2013 (nel 2014 sono stati solo 17 i rinnovi di contratto portati a termine, con meno di 2 milioni di lavoratori coinvolti). A questo si aggiunga il fatto che, dall'inizio della crisi, l'unica forma di lavoro che ha continuato a crescere è stata quella del part time, aumentata di 650mila unità dal 2008 ad oggi.

 

L’Istat poi dedica un ampio spazio al rapporto fra lavoro e istruzione, con dati che sostanzialmente ribadiscono come gli individui più istruiti siano stati colpiti meno dalla crisi economica e come i lavoratori laureati abbiano un considerevole vantaggio in termini retributivi rispetto a quelli con titoli di studio inferiori. Tutto questo insieme di fattori concorre a determinare una situazione peculiare: l'aumento della disuguaglianza sociale. Una questione che riguarda tutti i paesi a reddito medio – alto colpiti dalla crisi e che ha innescato un circolo vizioso dal quale appare complicato uscire.

Infatti, come notano su LaVoce, “l’aumento delle disparità nella distribuzione del reddito incide negativamente sullo sviluppo delle capacità lavorative di coloro che provengono da nuclei familiari con scarsi livelli di istruzione, perché per loro diminuiscono le opportunità di istruzione di grado elevato, di carriera lavorativa e di mobilità sociale. Di conseguenza, la disuguaglianza ha un effetto negativo sulla crescita proprio perché ha una responsabilità nello scarso sviluppo del capitale umano di una parte della popolazione”.

La crisi ha dunque approfondito le fratture sociali, lasciandoci in eredità una società sempre più diseguale e sempre meno "giusta". La crisi ha cioè agito come acceleratore di un processo già in atto, evidenziando le differenze fra i gruppi sociali, ampliando il fossato tra le classi e rendendo la società meno “scalabile”, meno inclusiva, meno permeabile alle contaminazioni e ai cambiamenti. E sbaglia chi si illude che basterà la ripresa a sanare queste cicatrici: serve una inversione di tendenza, un cambio di paradigma. Una nuova idea di società, insomma.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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