“Viviamo in un’epoca globalizzata dove con un clic si può teoricamente conoscere tutto. Ma in realtà nessuno conosce niente. E così il terrore diventa ancora più terrore. Perché ti senti attaccato dagli alieni. Non capisci bene come si è arrivati a questo punto. Ti sei perso le puntate precedenti”. Qualche tempo fa, commentando i fatti di Parigi, così scriveva Igiaba Scego su Internazionale, dando una precisa idea di quella sorta di spirale dello straniamento in cui precipitiamo di fronte a fatti come quelli di Nizza.
Prima ancora che sia chiara la dinamica dei fatti, prima ancora che si accertino legami e appartenenze, prima ancora che sia finita la conta del numero dei morti, sentiamo il bisogno di “sapere di chi sia la colpa”, di avere qualcuno con cui prendercela. E di un motivo, una ragione, un senso all'orrore, come ha scritto qualcuno.
È, inutile girarci intorno, una reazione funzionale alle strategie del Califfato, in difficoltà dal punto di vista politico – militare, ma in grado di alimentare un vero e proprio network del terrore, che fa ampio uso delle tecniche di viralizzazione dei messaggi e di "brandizzazione" dei contenuti. Una strategia che, come detto più volte, fa leva sull’uso politico della paura, sullo sfruttamento dell’emotività, con l’obiettivo di estendere il conflitto alla quotidianità, eliminare le zone grigie, portare sul piano ideologico uno scontro che è prima di tutto di carattere politico – economico.
È vero che si tratta di caratteristiche comuni ad altre organizzazioni terroristiche, che hanno sempre mirato a destabilizzare gli Stati e spingere a svolte autoritarie e repressive in modo da aumentare caos e confusione, traendone indirettamente vantaggio. Ma ci sono aspetti profondamente nuovi, che i fatti di Parigi, Dacca, Nizza ma anche del recente assalto a un treno in Germania, evidenziano bene. C’è l’utilizzo spregiudicato della comunicazione: le menti del Califfato hanno mostrato di conoscere perfettamente non solo il meccanismo di “propagazione del terrore”, ma anche i ragionamenti sulla penetrazione del messaggio, sull’effetto straniamento, sulla disintermediazione e sul superamento della dimensione “singolare” dell’esistenza.
C'è poi una questione che rende la minaccia terroristica un vero e proprio enigma: la riflessione sulla “mano” che colpisce l’Occidente.
Il legame con l'Is degli esecutori materiali degli attentati è spesso molto flebile, a volte indiretto, altre volte limitato all’adesione a un “sostrato ideologico”. Di più, negli ultimi mesi abbiamo assistito a un ulteriore salto in avanti, dai foreign fighters o comunque da soggetti addestrati e formati in teatro di guerra, ai lupi solitari, a individui che si radicalizzano rapidamente e in modo confuso. È una minaccia difficilmente controllabile, quasi impossibile da individuare e isolare.
Ma soprattutto è un fatto che ci pone di fronte alla più ostica delle domande: perché? Cosa spinge un uomo a salire su un tir e incamminarsi a morte certa dopo aver fatto strage di innocenti?
Sempre più spesso si parla di "homegrown mujahidin", ovvero “soggetti nati o cresciuti o radicalizzatisi in Occidente (sia convertiti sia reborn muslims, vale a dire immigrati di seconda/terza generazione che hanno riscoperto l’Islam in chiave estremista), pronti a convergere verso le zone del Califfato o a compiere il jihad sui territori di residenza". Oppure, come scrivono i servizi italiani, “di individui anche molto giovani, generalmente privi di uno specifico background, permeabili ad opinioni di cordata o all’influenza di figure carismatiche e resi più ricettivi al credo jihadista da crisi identitarie, condizioni di emarginazione e visioni paranoiche delle regole sociali, talora frutto della frequentazione di ambienti della microdelinquenza, dello spaccio e delle carceri”.
Ogni risposta è parziale, e la sensazione è che ci sia qualcosa che ci sfugga. Qualcosa che non riusciamo a capire, appunto. Zizek scrive: “I fondamentalisti sono già come noi; segretamente hanno già introiettato i nostri parametri, alla luce dei quali misurano se stessi”; e aggiunge: “I terroristi pseudo-fondamentalisti sono profondamente turbati, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non-credenti. È facile intuire che, combattendo l’altro peccaminoso, combattano in realtà la loro stessa tentazione”.
Una traccia interessante, perché il suo corollario comporta la considerazione dei terroristi come prodotto della società occidentale e, dunque del terrorismo come prodotto del sistema capitalista – consumista, e a seguire dell'integralismo come guasto del liberalismo.
È l'idea che l'Islam sia solo il sostrato ideologico in cui vengono omogeneizzate storie e percorsi individuali diversissimi fra loro, in cui trovino forza e risalto esistenze tormentate, storie di emarginazione, tensioni sociali e "follie" individuali. Anche quando la radicalizzazione dei soggetti è rapida, o addirittura inesistente, ciò che emerge è una sorta di vuoto interiore, di abisso psicologico e di distanze sociali ormai non colmabili.
In tale contesto, il concetto di radicalizzazione, come scrive Beaumont sul Guardian, sta diventando praticamente privo di significato, poiché è sostituito da un’adesione di altro tipo, più “emozionale” che ideologica. È qualcosa di completamente nuovo: se “un individuo instabile – forse già incline a pensieri grandiosi, mortali e narcisistiche – prende in prestito le forme e le idee di un certo tipo di uccisione di massa” e le rivolge contro i propri vicini, allora ogni distinzione fra lupo solitario / terrorista "organico" finisce col perdere di importanza.
Una minaccia di questo tipo è tanto più spiazzante in quanto ci obbliga a riconsiderare l'intero modello di società che abbiamo realizzato, nonché i guasti di un modello di integrazione che per anni, decenni, abbiamo considerato come un esempio da seguire e che invece si rivela sempre più essere una gabbia. A pari diritti non corrispondono pari opportunità, in una società bloccata, non più scalabile, in cui la meritocrazia è un feticcio e le opportunità una balla colossale. Immigrati di seconda, terza generazione, che ritrovano per il tramite della religione un legame con le proprie radici passate e colmano un vuoto che è allo stesso tempo personale e collettivo. Cercando una risposta nel tempo del cinismo, dell'individualismo e della paura.
In questi giorni molti analisti hanno posto l'accento sull'aspetto per così dire "psicologico", sul movente individuale, sulle ragioni intime che sarebbero alla base delle azioni degli attentatori di Nizza e di Wurzburg (dove un ragazzo di 17 anni ha assalito con un'ascia i passeggeri di un treno). Ci sono dei concetti che ritornano, nelle varie analisi che ci è capitato di leggere.
Uno è quello di emarginazione, che poi è un modo diverso per dire esclusione. Per gran parte si tratta di persone ai margini della società, che non sono mai riuscite a trovare il loro posto nel mondo, finendo con lo scivolare in una dimensione in cui alienazione e insoddisfazione si trasformano in rabbia cieca e nichilista.
Un altro è quello di solitudine, l’aspetto più devastante della fine della dimensione collettiva della storia. Nel tempo del cinismo, dell’egoismo e della morte dell’Idea, per sentirsi parte di un flusso, di un insieme, di un gruppo non ci resta che l’adesione ai modelli imposti dal sistema consumistico. La partecipazione alla vita collettiva avviene per il tramite dell’accesso agli status symbol, dell’adesione alla “moda”, ai grandi riti collettivi della contemporaneità.
Ma è un circolo vizioso, che ci porta a desiderare sempre di più, a non sentirci mai sazi, mai soddisfatti. Le enormi, enormi, disuguaglianze del nostro tempo, poi, non fanno altro che acuire tale sensazione, spingendo o al vittimismo deresponsabilizzante o alla "radicalizzazione delle coscienze". E il bersaglio di questa rabbia non è il politico, l'istituzione, l'Idea, ma quello stesso sistema di società che respinge, esclude, isola.
Proprio per questo trovare le risposte al terrore sarà impresa ardua.