Dovrebbero avere la mia età i ragazzi abbracciati a Renzi, che accolgono felici il Jobs Act con il pollice alzato. La didascalia della foto pubblicata sul profilo Facebook del premier definisce l'evento di ieri come “un giorno atteso da molti anni da una parte di italiani e soprattutto da un'intera generazione”. Se ci si riferisce alla mia, di generazione, mi si tolga dal calcolo: tre coetanei che approvano la riforma del lavoro non mi rappresentano. Anzi, ho la fondata impressione che quelle espressioni felici non siano in realtà così condivise, se non altro da parte di chi abbia presente il panorama del mondo del lavoro in Italia.
Temo di non essere fotogenica come i modelli che posano accanto al premier, quindi credo che mi limiterei, parafrasando il discorso renziano all'apertura del semestre europeo, a fare al Jobs Act una foto: non un selfie, perché difficilmente riuscirei a sorridere.
Non si può infatti sorridere guardando alla nuova disciplina dei licenziamenti. In caso di licenziamento disciplinare ingiustificato, ad esempio, è previsto per il lavoratore un semplice risarcimento: la reintegrazione è concessa solo qualora non si sia verificato il “fatto materiale”. Ciò significa che basta un minimo inadempimento perché il licenziamento, pur ingiustificato, rimanga valido (“resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” tiene a precisare il Governo) . Eppure il lavoro dovrebbe avere una funzione sociale, di dignità, in sé e per sé, e non dovrebbe quindi poter essere sostituito dal semplice denaro, se non quando sia effettivamente impossibile ristabilire la situazione precedente all'abuso di potere. D'altronde, scriveva la Cassazione in una sentenza del 2006, “il diritto del lavoratore al proprio posto, protetto dagli artt. 1, 4 e 35 Cost., subirebbe una sostanziale espropriazione se ridotto in via di regola al diritto ad una somma”.
Si sorride poi ancor meno pensando alla disciplina dei licenziamenti collettivi, per i quali la reintegrazione è prevista solo qualora manchi la forma scritta, mentre in tutti gli altri casi l'unico rimedio è il risarcimento. Questo significa che un'impresa può evitare la consultazione dei sindacati e procedere agli esuberi, tenendo conto di dover eventualmente risarcire i licenziati. E, magari, visto che la sanzione è sempre indennitaria, anche violando i criteri di scelta, potrebbe decidere di espellere anche qualche sindacalista, qualche donna in gravidanza, qualche disabile, qualche ebreo, qualche musulmano, qualche lavoratore che non abbia sorriso al suo caporale. Il tutto per la modica cifra di un massimo ventiquattro mensilità a testa: la discriminazione diventa così una semplice voce di spesa nel bilancio.
E se si può forse sciogliere il broncio davanti ai minimi miglioramenti sulla carta in tema di maternità, bisogna tornare seri quando ci si ricorda che, prima di questi decreti attuativi, è stato varato il d.l. Poletti, con cui si è eliminato il requisito della causalità per i contratti a termine, aumentando a cinque il numero di proroghe possibili in tre anni. Se dunque prima, almeno teoricamente, il contratto a tempo determinato doveva essere eccezionale e giustificato da particolari ed esplicite ragioni tecnico-produttive, ora quest'obbligo non c'è più. Così assumere le donne con brevi contratti permetterebbe di sottrarsi alla disciplina a tutela della maternità, semplicemente non rinnovando il rapporto al termine.
Ci si sente presi in giro, poi, a leggere il testo dei decreti attuativi e vedere come vengano propagandati; come il vanto “basta cococo” che si traduce nel ribadire semplicemente quanto già previsto dalla legge Biagi nel 2003: nessun cambiamento per le collaborazioni coordinate e continuative, se non nei cinguettii su Twitter.
E, sullo sfondo di questa fotografia al Jobs Act, restano i dati e le analisi statistiche, come quelle di Riccardo Realfonzo che, ponendo in relazione la variazione dell'indice di protezione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato e i tassi di disoccupazione tra il 1993 e il 2012 ha verificato come la flessibilità abbia fatto diminuire l'occupazione, invece che incrementarla. Rimane in secondo piano, nell'immagine, la dignità di lavoratori e lavoratrici che difficilmente alzeranno la testa per denunciare la violazione di norme di sicurezza, per paura di essere licenziati. Si intravede quanto inutile sia mantenere la reintegrazione per il solo licenziamento discriminatorio, permettendo che gli abusi avvengano sotto altre etichette giuridiche: di licenziamento disciplinare, di esubero collettivo, non rinnovando un contratto a termine o demansionando i dipendenti scomodi.
Non bastano sorrisi, pollici alzati e slogan: nemmeno l'ipocrisia riesce a nascondere completamente lo scempio.