In fondo, il fatto che questo governo ponga la fiducia sulla legge elettorale, non stupisce poi così tanto, e non solo per il vecchio adagio secondo cui “abuse of power comes as no surprise”. Ci si poteva aspettare quest'esito, piuttosto, perché l'Italicum sembra rappresentare l'esempio perfetto del metodo politico di Matteo Renzi.
A cominciare dal titolo: le leggi elettorali italiane sono sempre state indicate dal nome del loro relatore, latineggiato dalla cronaca politica dal 1993 in poi, per via delle critiche di Sartori all'impianto disegnato dall'attuale Presidente della Repubblica: dunque Mattarellum, poi Tatarellum; e infine, tralasciando il responsabile, il Porcellum. L'Italicum, invece, non deve il suo nome alla sintesi giornalistica: è stato Renzi stesso, presentandolo, ad attribuirgli il titolo altisonante quanto patriottico. La questione di metodo è piuttosto evidente: il nome sottintende un giudizio di valore positivo, contro cui è comunicativamente difficile scagliarsi. Si anticipano così cronaca e analisi, imponendo denominazioni in linea con la propria politica: e come la legge elettorale diventa Italicum, così la riforma dell'istruzione viene chiamata La buona scuola.
Ma la comunicazione renziana non si limita ai titoli e basta leggere la lettera ai circoli dem per convincersene: Renzi non dice bugie, si limita alle mezze verità. Eliminato il contesto e privilegiata la fumosa ma accattivante velocità di divulgazione, il testo si riempie di semplificazioni logiche: dall'ambiguità alla fallacia del pendio scivoloso, o attraverso la prassi del cherry picking (raccogliere le ciliegie preferite, in base a quel che conviene, che caratterizza in generale l'analisi dei dati da parte del governo), parole formalmente non false formano un discorso intellettualmente disonesto.
Ma la propaganda è anche questo e, in fondo, è naturale che un politico se ne serva. Meno giustificabile, invece, è che la stampa mainstream si accodi alla narrazione governativa, non fornendo al pubblico gli strumenti per decifrare la realtà politica: il risultato finisce per essere una confusione diffusa quanto pericolosa nell'analisi degli avvenimenti.
Ad esempio, l'Italicum è presentato come la legge elettorale che si stava aspettando da anni, legittimata dalle primarie così come indispensabile per rispondere alla bocciatura del Porcellum alla Consulta.
Questa visione è però innanzitutto riduttiva: se quel che è in discussione ora è una legge elettorale, il contesto di riferimento è ben più ampio e abbraccia le modifiche istituzionali del sistema parlamentare. Dunque, sì, è vero, è almeno dal 2011 che si richiede la modifica del Porcellum, ma lo stravolgimento costituzionale non era originariamente compreso nel pacchetto; e forse il problema sta proprio qui: l'Italicum non è una semplice legge elettorale, ma è parte di un più vasto disegno strutturale. E infatti, dando per scontato il successo della modifica costituzionale proposta dal Governo, non ci si è nemmeno disturbati a delineare un sistema elettorale dedicato al Senato.
Quanto all'avallo popolare dell'Italicum, nel programma renziano, la legge elettorale era definita così:
“una legge che sia chiara, che faccia sapere subito chi ha vinto e chi ha perso, che garantisca a chi ha vinto di poter fare, a chi ha perso di controllare e soprattutto ai cittadini di giudicare. Una legge elettorale che tolga gli alibi a chi governa “non mi hanno fatto lavorare” e che restituisca ai cittadini il sacrosanto diritto di scegliere a chi affidare i propri sogni, le proprie speranze, i propri progetti.”
Si tratta cioè di parole che potrebbero riferirsi a qualunque tipo di legge, a prescindere che il modello sia proporzionale o maggioritario, con o senza preferenze: varrebbero persino se si volesse introdurre un sistema plebiscitario o ad alzata di mano. Tuttavia, pure fossero chiare e inequivocabili, le frasi in questione restano quello che sono: proposte per primarie di partito, legittimate da una parte degli iscritti o dei simpatizzanti di quell'associazione privata che è, appunto, un partito. Ed è proprio ignorando questa realtà che si innesta il secondo equivoco su cui si basa il successo renziano: i voti ottenuti nelle consultazioni di partito diventano legittimazione di qualunque provvedimento proposto o ruolo ricoperto, dalla formazione del governo alle riforme istituzionali. Non importa se i voti erano riferiti alla scelta del segretario di una forza politica o avevano il solo obiettivo di portare, attraverso le preferenze, un candidato valido al Parlamento Europeo: nella narrazione, diventano incontestabile giustificazione di qualunque progetto del Governo.
E la confusione tocca anche i soggetti protagonisti delle vicende. Ad esempio, si mischiano i concetti di partito e gruppo parlamentare: quest'ultimo, infatti, costituisce sì uno specchio del partito, ma è comunque composto di eletti, parlamentari sulla base dei voti ottenuti con un determinato programma elettorale (diverso da quello delle successive primarie). Secondo la Costituzione (art. 67), i parlamentari rappresentano la nazione senza vincolo di mandato, tutela prevista soprattutto (si chiarisce nei lavori dell'assemblea costituente) nei confronti del proprio partito. Invece nella discussione sull'Italicum, in commissione Affari Costituzionali della Camera, si è consumata l'ennesima forzatura della ratio dell'istituto della sostituzione, che dovrebbe rispondere a motivazioni pratiche, di competenza e presenza dei deputati ai lavori, e che invece ha finito per riguardare (ancora una volta, come avvenne illegittimamente in Senato, l'anno scorso, nella discussione per le riforme istituzionali) dinamiche relative all'unanimità del consenso sulle proposte del capo.
E, pur supponendo che ora valga la semplicistica identità tra partito e gruppo, supposta dalla ministra Boschi l'estate scorsa, resta una confusione di piani e soggetti ancor più inquietante, che investe non più solo il partito nella sua dimensione societaria e in quella parlamentare, ma che riguarda il rapporto tra il potere legislativo e il governo. Renzi, nel presentare le varie riforme, utilizza come soggetto delle frasi la prima persona plurale: noi. E la domanda sorge spontanea: ma noi chi?
Il noi di Renzi comprende il Partito Democratico, e allora Boschi e Serracchiani ma anche Civati, Bersani e Fassina, oppure si riferisce al Governo, e quindi in quel noi sono inclusi Alfano, la Lorenzin e in generale le forze politiche che sostengono l'esecutivo?
Questo indefinito noi è una chiave della narrazione renziana. Perché Alfano sarà sempre dipinto come un blocco negli istinti riformisti di governo, ma in realtà è funzionale al suo successo, perché catalizza le critiche e il dissenso, assumendo la responsabilità, implicita o dichiarata, della gestione dell'ordine pubblico con le manganellate in testa a operai e studenti, delle stragi di migranti in mare, della negazione di diritti sociali alle coppie dello stesso sesso. Però, quando la narrazione lo richiede, sparisce: come dopo le elezioni europee, quando la retorica della #voltabuona si focalizzava sul 41% del Pd trascurando il 4% del Nuovo Centrodestra, che però continua a stare al governo, comoda scusa per temi elettoralmente discutibili.
Si potrà dire che, per uscire dalla palude (come twitterebbe Renzi), le questioni di metodo sono marginali e che importa il merito (dei sogni, delle speranze e dei progetti, come twitterebbe ancora Renzi). E invece no. Perché la democrazia non è un fine, ma un mezzo. E se la narrazione governativa (con l'accondiscendenza mediatica) si concentra solo sugli obiettivi, sminuendo il metodo con cui vengono perseguiti, sta in realtà sbeffeggiando la democrazia stessa, che proprio nella dialettica (o nella “melina”, per continuare a usare il lessico renziano) trova la sua essenza.