Proporzionale con attribuzione dei voti su base nazionale, candidati distribuiti in 120 collegi, con liste bloccate ma corte (più o meno), premio di maggioranza del 18% circa per la lista o la coalizione che raggiunge almeno il 35% dei consensi con eventuale ballottaggio di coalizione se tale condizione non si verifichi, soglie di sbarramento al 5% per i partiti coalizzati, all'8% per le liste e al 12% per le coalizioni: sono questi in estrema sintesi i punti della nuova legge elettorale frutto dell'accordo tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi e "digerita" da Angelino Alfano non senza qualche perplessità. Una legge preconfezionata per la ratifica della direzione Pd e sulla quale i margini di trattativa sono pressoché nulli, come lasciato intendere da Matteo Renzi con toni discutibili, che hanno avuto il "merito" di spostare la discussione dalla sostanza del progetto al modo in cui sono stati comunicati a dirigenti, parlamentari ed elettori.
Lo stesso Renzi che ha poi "autorizzato" a chiamare la nuova legge "Italicum". E mai nome fu più adatto, non solo perché, come notato su Repubblica da Ezio Mauro (?): "è appunto all’italiana mette tutti gli ingredienti nello stesso piatto, conservando un pizzico di spagnolo (con le circoscrizioni ridotte), insaporendolo di tedesco (con il proporzionale e lo sbarramento) e condendolo di francese (il doppio turno «eventuale»)". Ma anche perché riflette una concezione passatista della trattativa politica fatta di mediazioni e compromessi al ribasso, di aperture successive e di accordicchi fra capibastione. Insomma, se il decisionismo renziano ha avuto il merito di rompere lo stallo, è stato anche perché ha esasperato le caratteristiche della prassi politica italiana (magari con maggior trasparenza). Notava Pippo Civati sul punto: "Ripartire da tre forse non ha agevolato. Perché ciascuna delle forze politiche ha iniziato a fare valutazioni di piccola convenienza e soprattutto perché ciascuno ha tentato di cogliere da ciascuna qualcosa che le convenisse… ibridando e stravolgendo i modelli proposti (già un po’ “impuri”, in realtà)".
Il risultato è una legge elettorale che, malgrado dichiarazioni su dichiarazioni, non si discosta molto dal Porcellum. Ne modifica alcuni aspetti, più che cancellarli, inserendo una sorta di clausola di salvaguardia per garantire la governabilità. Governabilità che è in effetti l'unico punto centrato con precisione (chi vince avrà in ogni caso la maggioranza dei seggi), anche se ad un prezzo molto salato e con qualche rischio. Nello specifico, infatti, sono in molti ad aver sollevato dubbi sulla legittimità dell'assegnazione di un premio di maggioranza comunque alto (18%), considerando che le obiezioni della Consulta parlavano esplicitamente di abnormità del premio assegnato dal Porcellum (l'Italicum regalerebbe 92 seggi, non briciole) e non soltanto dell'assenza di una soglia minima (tacendo poi della discussione sulla necessità che a guidare il Paese sia una forza politica realmente rappresentativa). A ciò si aggiungono le perplessità sulla decisione di conservare le liste bloccate, bocciando il voto di preferenza. È vero che la Consulta non ha posto il veto su liste "piccole", ma è anche vero che oltre l'indicazione meramente "tecnica" nella scrittura della legge elettorale dovrebbe intervenire anche la considerazione di ordine politico. E il tema della sovranità popolare è ancora sul tavolo, anche considerando che con l'assegnazione su base nazionale e con la ripartizione dei resti, resta più di qualche interrogativo sull'effettiva "conoscenza dell'elettore della destinazione del suo voto". Ostacoli che nello specifico potrebbero anche essere evitati con alcune piccole correzioni di rotta, come nota Ainis sul Corsera: "C’è infatti un confine, una frontiera impercettibile, dove la quantità diventa qualità. Vale per il premio di maggioranza, perché il 40% dei consensi sarebbe di gran lunga più accettabile rispetto al 35%. E vale per le liste bloccate, che si sbloccherebbero aumentando i 120 collegi elettorali. In caso contrario, il prestigiatore rischia di trasformarsi in un illusionista. Ma gli sarà difficile illudere di nuovo la Consulta, oltre che gli italiani".
La perplessità maggiore è però quella delle soglie di sbarramento. Alte, mostruose per qualcuno. Che una lista che raccoglie il 7,9% su base nazionale (2 – 3 milioni di voti) possa rimanere fuori dal Parlamento è un assurdo logico e "morale". Che una coalizione di liste che raggiunga l'11,9% non abbia diritto alla rappresentanza parlamentare è un abbaglio che, più che mettere fine al potere di veto dei partitini, forza in maniera evidente ed inesorabile la ricomposizione del quadro politico nazionale. È vero che anche altri sistemi, ad esempio quello tedesco, prevedono soglie di sbarramento, ma il limite è decisamente alto e non tiene alcun conto della frammentazione del consenso che, piaccia o meno, è un dato di fatto del sistema politico italiano (ed il riferimento al modello inglese francamente non regge, visto che si tratta di una realtà completamente diversa).
La mossa di Renzi è evidentemente un evento, una scelta coraggiosa (perché il Sindaco di Firenze si gioca molto nel progetto condiviso col Cavaliere) e ambiziosa (perché in effetti sono anni che i partiti sfuggono alle loro responsabilità). E certamente l'indecenza della politica degli ultimi anni si supera solo con un taglio netto, con uno shock terapeutico. Ma la sensazione è che ancora una volta si sia preferito andare in una direzione diversa da quella del recupero del rapporto elettori – eletti, con un accordo fra maggiorenti calato dall'alto e che in nome della governabilità non si esiterà a passare sul cadavere della sovranità popolare e della rappresentatività territoriale.