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Impariamo dalla pandemia: aboliamo le Regioni

Durante la pandemia, le giunte regionali stanno dimostrando di non saper gestire nel modo corretto le competenze sulla Sanità a loro affidate dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001. La soluzione deve essere drastica: abolire le Regioni e ricostruire un sistema con una forte catena di comando al centro, rilanciando Comuni e Province come i veri enti di prossimità per il cittadino. L’opinione del senatore Gregorio De Falco.
A cura di Redazione
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di Gregorio De Falco – senatore Gruppo Misto

La pandemia ha dimostrato che è necessaria la  centralizzazione degli strumenti di tutela della salute pubblica, sottraendo competenze alle Regioni. Come noto, la riforma del Titolo V del 2001 delega la gestione della sanità agli enti regionali, con poche eccezioni, come la profilassi internazionale.  Le Regioni però hanno purtroppo dimostrato di non essere in grado di gestire in modo efficiente la capacità di spesa loro affidata. 

Le Regioni sono servite  a realizzare talvolta un equilibrio  tra le diverse forze politiche, ma non hanno portato nessun vantaggio ai cittadini, accentuando invece le diseguaglianze nella spesa pubblica pro capite, sia in senso quantitativo che qualitativo. Le Regioni a Statuto speciale, per esempio, spendono mediamente quasi il doppio delle altre in termini di spesa pro capite,  6500 euro contro 3600 euro, secondo una stima della Ragioneria dello Stato. Disparità notevoli esistono anche tra le varie Regioni a statuto ordinario.

Non sfasciare il Paese

Queste  differenze si riflettono in servizi disomogenei sul territorio nazionale, non addebitabili perciò solo a sprechi e inefficienze, che pur ci sono, ma anche alla diversa disponibilità di risorse pubbliche, in relazione al numero di abitanti. L'attribuzione legislativa e amministrativa asimmetrica tra le Regioni, dunque, amplifica la sperequazione già esistente a favore delle comunità più autonome, incentivando ulteriori richieste di autonomia , con riflessi negativi anche sulla stabilità politica e sull'uguaglianza sociale nel  Paese.

Oltre alle tre regioni che hanno chiesto maggiore autonomia – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna –  ricordiamo che anche altre regioni a statuto ordinario hanno dato ai rispettivi presidenti l’incarico di richiedere al Governo l’avvio delle trattative per ottenere ulteriori forme e condizioni di autonomia. L’Italia è già caratterizzata da pesanti disparità territoriali, i procedimenti avviati possono avere l'effetto di creare un'ulteriore distorsione e polarizzazione, sfasciando il Paese. La ridondanza organizzativa del nostro assetto amministrativo-territoriale è basata su quattro livelli – Stato centrale, Regioni, Province (mai abolite) e Comuni – con una pluralità di sovrapposizioni degli ambiti territoriali di competenza, con continui conflitti di potere,  che hanno contribuito a moltiplicare le disfunzioni della pubblica amministrazione e, soprattutto, non hanno reso possibile alla cittadinanza un’adeguata e agevole fruizione dei servizi.

La lezione della pandemia

Con il sopravvenire della pandemia sarebbe stato necessario portare al centro la catena di comando e controllo degli interventi, sottraendo ogni autonomia di direzione  in materia alle Regioni. Invece abbiamo assistito ad una gara  a mettersi in mostra, che ha contribuito a generare confusione tra i cittadini, obbligati ad adeguarsi a provvedimenti anche contraddittori tra di loro. Al contrario, il momento storico dovrebbe imporre senso di unità e chiarezza di intenti per facilitare comportamenti coerenti da parte della collettività. In prossimità del periodo elettorale, ogni Regione  ha emanato ordinanze addirittura per definire la distanza interpersonale da rispettare, differente da territorio a territorio: da un metro, a un metro e venti, un metro e cinquanta, un metro e ottanta…Un modo di procedere improvvisato e caotico, pur essendo già alle soglie della seconda ondata.

Se vogliamo identificarci con un territorio a cui siamo vicini, allora rilanciamo le Province, messe in rete e comunque dipendenti da un governo centrale. Le Province sono legate storicamente e territorialmente ai Comuni e garantiscono una maggiore coesione economica e sociale, fatta di piccole imprese, che appartengono ad un territorio in modo reale e sano, e non sulla base di costruzioni strumentali in contrapposizione con lo Stato. Le Regioni sono artifici amministrativi, con cui si vuole imitare un sistema federale che non esiste, aumentando i costi attraverso la frammentazione della sanità, dei trasporti locali e della scuola, ad esempio. Le Regioni dovevano sostituire le Province nelle intenzioni del legislatore, ma hanno fallito miseramente l'intento, moltiplicando i centri di spesa in nome di una presunta specificità costruita dal nulla nel dopoguerra.

Abolire le Regioni

Nel 1970 la dichiarazione più solenne venne fatta dall’On. Ugo La Malfa: con l’approvazione della legge che istituiva le Regioni si sarebbe dovuto porre fine alla sovrastruttura della provincia, i Comuni avrebbero avuto come interlocutore un solo ente. La creazione delle Regioni era perciò condizionata alla prevista abolizione delle province, che non è mai avvenuta nonostante i proclami ricorrenti. Inoltre la querelle tra decentramento amministrativo e autonomia è stata risolta a vantaggio di quest'ultima anche se, come ben vediamo oggi, nella confusione dei ruoli e delle attribuzioni il cittadino perde la possibilità di individuare le responsabilità e di chiedere conto e ragione all'autorità amministrativa competente.

Fino al 1970 le Regioni non avevano nessun potere, oggi fanno a gara per ottenerne di più, ma questa tendenza non è giustificata né dalla storia, né soprattutto dall’interesse dei cittadini, che troverebbe maggiore soddisfazione dalla vicinanza e dalla coesione delle Province, a cui sarebbe bene restituire dignità democratica ripristinando l’elezione dei suoi rappresentanti da parte dei cittadini. Anche le Unioni di Comuni e le aree vaste sarebbero idonei strumenti  di integrazione territoriale nel rispetto del dato geomorfologico,  soprattutto per la reale proiezione delle relazioni economico-sociali, quale si riconosce nell’organizzazione delle nostre economie locali e nelle relative manifestazioni identitarie.

In Italia, infatti, sarebbe opportuno incentivare al massimo le Unioni amministrative di Comuni (non le fusioni) visto che ci sono 5.495 comuni con meno di  5.000 abitanti, che rappresentano il 69,53% del numero totale dei comuni italiani (dati Istat 2019). Si dovrebbe procedere ad un riordino amministrativo senza snaturare le specificità territoriali, anzi promuovendole e valorizzandole. Abolire le regioni servirebbe, pertanto, a superare finalmente la pretesa innaturale che il territorio debba continuare ad adeguarsi a vincoli amministrativi che ne ostacolano le potenzialità.

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