Dopo le note vicende cha hanno portato all’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, è tornata in auge la questione del “fallimento del Movimento 5 Stelle”, che avrebbe sostanzialmente sbagliato linea testimoniando una volta di più l’inadeguatezza degli eletti alle politiche del 2013. In molti hanno sottolineato come i grillini siano ridotti sul piano dell’irrilevanza, mentre il loro gruppo continua a perdere pezzi a causa dell’assenza di “spazi di democrazia interni” e della chiusura ad ogni ipotesi di alleanza o collaborazione con le altre forze parlamentari. Una lettura che non convince del tutto, soprattutto perché non abbraccia quello che è il punto centrale del percorso immaginato da Grillo e Casaleggio: il consolidamento del consenso, un fatto non scontato e niente affatto "automatico".
Una lettura del genere, in particolare, non tiene conto dell’evoluzione della struttura organizzativa e del cambio di paradigma di Grillo e Casaleggio, i quali, prendendo atto della fine della “fase espansiva” e considerando alto il rischio disgregazione, hanno decisamente optato per un approccio di tipo conservativo. Come detto, “nel momento di maggiore difficoltà per il Movimento, con il boom renziano e la durissima concorrenza della Lega Nord sul piano della propaganda populista, si è scelto di sacrificare gli spazi della riflessione critica e del confronto interno e di incardinare l’esperienza movimentista in una struttura molto più rigida”. Il risultato è stato triplice: si è concretizzata la proiezione di chi aveva visto il Movimento “occupare uno spazio politico ben definito…per mantenerlo vuoto” (sul come il M5S abbia garantito la tenuta del sistema si legga l’analisi dei Wu Ming); si è legittimata l’immagine di una conduzione autoritaria delle dinamiche interne al M5S (inclusi il rilancio dell’infallibilità del verbo grillino, l’addio all’uno vale uno, la fine della disintermediazione nel rapporto con gli iscritti, l’appannamento del mito della democrazia diretta) con le purghe nei confronti dei dissidenti e gli abbandoni spontanei ed interessati (che da un certo punto di vista hanno rafforzato il progetto grillino); si è chiuso l’equivoco del “non siamo un partito / non siamo una casta / siamo cittadini punto e basta”.
La realtà dei fatti è, almeno in parte, diversa. Con il direttorio, la riorganizzazione dei meet up, i collegamenti fra gli eletti, l’individuazione di referenti politici, la stretta sugli ingressi e le candidature e altri passaggi organizzativi, la trasformazione da Movimento a “partito” è quasi completata. E per di più, con una ben precisa “funzione sociale e politica”: rappresentare una forza di opposizione, nel Parlamento, nelle istituzioni e nella società, in vista della lunga epoca renziana. Ed è nel cambio di orizzonte, dal “vinciamo noi” al “vigiliamo noi”, che si gioca la partita del Movimento 5 Stelle che verrà.
In questi mesi, del resto, gli eletti del Movimento 5 Stelle hanno svolto a lungo il ruolo di “unica opposizione”, certo rimanendo spesso ostaggio della “necessità della spettacolarizzazione” (con frequenti sceneggiate tra il ridicolo, l’inutile ed il patetico in Parlamento), ma portando avanti con rigore e coerenza la loro attività. Per giunta in un momento di evidente deprezzamento del senso e del valore dell’opposizione parlamentare, giudicata sempre più spesso (con l’imbarazzante complicità dei mezzi di comunicazione) un “impiccio”, un “vezzo inutile”, in nome della “politica del fare subito, non importa cosa”.
Bastano quindi la coerenza, il rigore, l’onestà, la determinazione e la volontà politica per rappresentare con dignità l’alternativa al renzismo? No, decisamente. Ed è questo il limite più grande del progetto grillino, emerso con grande evidenza proprio “al sorgere della stella di Matteo Salvini”.
Il leader leghista ha occupato lo stesso spazio politico grillino, quello del dissenso, della rabbia e della sfiducia nelle istituzioni, proponendosi come forza antisistema e (a suo modo) rivoluzionaria. Rispetto a quella grillina, la proposta salviniana ha però dei vantaggi enormi: è legata senza ipocrisie ad un personaggio politico ben riconoscibile e sovraesposto mediaticamente; si muove su ogni livello comunicativo con enorme libertà, dalla televisione alla radio, passando per i social network (dove non è ostaggio della folle logica della monetizzazione dei click del network di Casaleggio…cosa mai vista per un politico di livello nazionale); ha ben chiari i riferimenti ideologici e i referenti politici a livello sovranazionale. Quest’ultimo punto, nell’opinione di chi scrive, è determinante e lo sarà ancora di più, dal momento che l’assenza di una riflessione ideologico – programmatica interna al Movimento si presenterà come un limite insormontabile e spianerà la strada a chi non avrà remore nel presentarsi come “compiutamente e grossolanamente post ideologico” (del resto Salvini non avvertirebbe alcuna contraddizione nel collocare nel campo della destra reazionaria e post fascista il suo “non siamo né di destra né di sinistra”…).
Su questo piano la risposta del Movimento 5 Stelle è stata timida, inadeguata, fino a sfociare nella "brutta copia" (dalla questione "migranti", passando per il "no euro" e "Mafia Capitale", solo per fare qualche esempio). Probabilmente perché si è scelto consapevolmente di sostituire la discussione “ideologico – programmatica” con la proposta politica, pensando che bastino le proposte della truppa grillina in Parlamento e le estemporanee riflessioni sul blog. Ma questo, pare evidente, è navigare a vista, senza coordinate chiare e senza un punto di arrivo ben definito. Soprattutto in un Movimento nel quale “è inevitabile che vi siano contraddizioni, vista l’estrema contraddittorietà del discorso e del programma: liberismo e «beni comuni», «meritocrazia» e «reddito di cittadinanza», pulsioni libertarie e pulsioni forcaiole, afflato universalistico e invettive contro i migranti che insidiano le nostre donne o i romeni che «sconsacrano i confini della patria», democrazia «liquida» e uso verticale della rete, retorica dell’apertura e controllo rigido del trademark” (qui l’analisi integrale); soprattutto se il contributo della “rete” è monco e se, parallelamente, i tempi della decisione nelle istituzioni sono molto accelerati dalle circostanze.
Del resto, il renzismo è una ideologia del fare, il salvinismo riassume in sé riflessioni ideologiche vecchie e nuove (non si deprezzi l'apporto del "lepenismo"), il grillismo invece si presume post ideologico, con orgoglio e presunzione, ma senza aver mai fatto lo sforzo concettuale di spiegarci cosa significhi. Ed è per questo che si trova, forse più degli altri, ad inseguire la volatilità degli umori della gente. Un piano sul quale Salvini li aspetta. Con le fauci spalancate.