La discesa in campo di Silvio Berlusconi avviene con un video, diffuso il 26 gennaio 1994, che è e resta uno dei più grandi spot pubblicitari della storia della televisione italiana. Il grande imbonitore presentava agli italiani un prodotto rivoluzionario, che avrebbe potuto cambiare volto al Paese, ma soprattutto rappresentare una svolta per le loro vite. Un acquisto necessario, per impedire l'impoverimento materiale e culturale del "Paese che amiamo", ma soprattutto per scacciare la paura del comunismo, per esorcizzare il pericolo rosso, rimasto inalterato nonostante il camuffamento in atto nella sinistra. È l'ennesima dimostrazione del trionfo della pubblicità e del marketing applicati alla sfera politica. E declinati in salsa italiana, cioè legati all'uomo che più di tutti saprà interpretare bisogni, sogni e desideri dell'italiano medio, della "pancia dell'elettorato", come si comincerà a dire. Un "signor Bonaventura eternamente in vacanza" ma allo stesso tempo capace di scelte radicali e cambi di marcia che gli hanno permesso di sopravvivere a tempeste e mareggiate. Nonché di cambiare radicalmente i modi ed i tempi della comunicazione politica (sui contenuti il ragionamento si fa necessariamente più ampio), anche brevettando un canovaccio difficilmente attaccabile: invasione ed occupazione degli spazi televisivi, monologhi interminabili, allergia al confronto, difesa ad oltranza del suo operato, demonizzazione dell’avversario e ossessione per i comunisti, per i giudici, per i giudici comunisti e via discorrendo.
Impossibile riepilogare o riassumere il complesso di analisi, interpretazioni e questioni aperte del ventennio berlusconiano, ovviamente. Tuttavia c'è una lettura decisamente assolutoria che proprio non ci convince. Ed è quella, paternalista e moraleggiante, che tende a considerare la parentesi berlusconiana come chiusa e (forse) compiuta, un ventennio di "malattia", da cui gli italiani si sono liberati dopo vaccini e cure omeopatiche. Una lettura che ha il difetto di essere finanche irrispettosa nei confronti di milioni di italiani e di derubricare la volontà popolare a "valore minore" (al netto della considerazione per la quale il berlusconismo non è mai stato "vera" maggioranza nel Paese). Come abbiamo avuto modo di scrivere in altre sedi, dal nostro punto di vista "il berlusconismo non è stato (e non è) una eccezione, un fenomeno saltuario ed estemporaneo che cadrà ben presto nell’oblio, ma è la manifestazione lampante dello “stato” di un Paese. E’ il capitolo successivo dell’autobiografia della nazione di gobettiana memoria sotto forma di “bolla”, di un cambiamento solo apparente, di un prodotto scadente spinto da uno slogan attraente ed efficace. Un racconto in cui a farla da padrone è uno stanco e poco convinto gioco delle parti, amplificato dal vero fattore dirimente di questi ultimi anni, ovvero la spettacolarizzazione della politica, accompagnata da un suo evidente depotenziamento a tutti i livelli. In tal senso è innegabile lo sconvolgimento di tutti i canoni di riferimento antecedenti, con un vero e proprio stravolgimento finanche del lessico, del senso stesso delle parole e di concetti minimi come decenza e trasparenza".
Una bolla, forse (per citare la definizione di Maltese, secondo cui dal "1994 l’Italia è divisa in due: chi vive felicemente dentro questa bolla di sapone, si sente protetto e si identifica con il carattere, i presunti vizi e le virtù del Capo; chi invece ostinatamente non si rassegna al fatto che metà paese si sia lasciato irretire, portare fuori strada dal Cavaliere il quale da 15 anni domina la scena politico-mediatica nazionale facendosi per forza di cose notare anche all’estero"). Ma parte essenziale della nostra storia, delle nostre contraddizioni, della vita di ognuno di noi. Con la capacità, in parte nuova, non solo di interpretare al meglio un certo spirito italiano, ma anche, grazie al formidabile supporto di una macchina pubblicitaria sempre a pieno regime, di stravolgere, corrompere finanche la stessa percezione dei fatti. In una personalizzazione non solo dello scontro politico, ma anche del linguaggio, dei concetti e della logica utilizzati per descriverne i fatti. Ne scrivevamo qualche settimana fa a proposito delle ormai arcinote vicende giudiziarie del Cavaliere: "Giustizialisti, garantisti, forcaioli: ogni concetto è finito con l’avere il suo termine di paragone nella condotta personale dell’ex premier. Il Paese dei 60 milioni di allenatori è diventato quello degli investigatori, dei giudici, dei partigiani della magistratura o dei falchi garantisti ad ogni costo (come un falco possa essere garantista resta un mistero). In un clima di mobilitazione perenne, in cui i conservatori hanno sollevato il vessillo della liberalità e dell’anticonformismo, bollando come bigotti, voyeur e sanfedisti coloro che credevano che nella decenza dei comportamenti potesse esserci un qualche metro di valutazione dell’individuo Berlusconi nel suo essere rappresentante di una istituzione".
Una storia completamente, assurdamente italiana, anche nel suo epilogo: un uomo che si addormentava in pubblico per scatenarsi la sera in una sorta di Las Vegas casereccia; un uomo incapace di destreggiarsi fra bugie e mistificazioni, fra smentite e reticenze; un uomo "incredibilmente potente e assurdamente solo, circondato da un nugolo di faccendieri ed affaristi senza scrupolo, da giovani disposte a tutto e consiglieri pronti ad abbandonare la nave al primo accenno di tempesta"; un uomo convinto di essere immune alle elementari leggi della giustizia e della democrazia, come quando ognuno di noi riceve una multa per divieto di sosta. Appunto, come noi. E non si creda che sia di consolazione.