Se si uscisse dal tifo che imperversa nella politica forse sarebbe il caso di valutare la situazione di Bagheria e del suo sindaco definito "inavvicinabile" dalle famiglie mafiose locali secondo quanto raccontato da Pasquale Di Salvo, l'ex poliziotto che fu scorta di Giovanni Falcone prima di mettersi al servizio della mafia e poi pentirsi. "Il sindaco grillino di Bagheria (Patrizio Cinque, M5S) era inavvicinabile, per questa ragione la famiglia mafiosa aveva deciso di non occuparsi più di appalti al comune": ha raccontato Di Salvo di fronte ai magistrati. «Con l’arrivo di Patrizio Cinque la situazione era cambiata, perché era davvero inavvicinabile. Io avevo da riscuotere un credito lecito nei confronti del Comune, neanche quello fu possibile recuperare».
Deponendo nel corso del processo "Pasta Rei", che si svolge a Milano, Di Salvo ha raccontato di come a Bagheria negli anni passati gli interessi mafiosi si concentrassero sugli appalti pubblici gestiti dal comune e sul racket imposto ai commercianti della piccola città siciliana (di cui, secondo il pentito, erano vittime anche i supermercati Conad della zona) e ha sottolineato il cambio di registro avvenuto nei mesi successivi all'elezione di Patrizio Cinque.
Forse sarebbe il caso, ora, alla luce della notizia e degli eventuali riscontri di provare ad analizzare serenamente (e seriamente) le motivazioni che spingono una famiglia mafiosa a ritenere non corruttibile e non avvicinabile un sindaco. Sarebbe il caso di domandarsi (nel Paese dei codici anticorruzione troppo spesso scavalcati) quale sia il "seme buono" che l'amministrazione avrebbe eventualmente seminato per coltivare l'idea di non essere disponibile a trattare con gli interessi particolari. Senza perdersi troppo a incensare Cinque e il suo partito sventolandolo come uno spot e, d'altro canto, senza sforzarsi di non parlarne sperando che così la notizia non esista: c'è, in questa storia, qualcosa di buono. Da imparare e custodire.