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Opinioni

Il rimpasto di governo non è ancora un’opzione, ma Giorgia Meloni si è stancata di giocare da sola

Giorgia Meloni è uscita indenne da un momento complicatissimo, portando a casa risultati politici di indubbio peso: la Conferenza sui migranti, lo sblocco dei fondi del Pnrr, la soluzione della vicenda Zaki. Lo ha fatto da sola, o grazie al lavoro di pochi fedelissimi. Un problema non di poco conto, vista la portata delle sfide che l’attendono.
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Le ultime settimane di Giorgia Meloni sono state piuttosto faticose, su questo ci sono pochissimi dubbi. La presidente del Consiglio ha dovuto tenere fede al suo ruolo salvifico da “aggiustatutto”, intervenendo in vicende non sempre semplicissime da sbrogliare. Ci ha provato nella modalità classica, ovvero alternando dichiarazioni pubbliche a spin più o meno anonimi, scommettendo sulla solita copertura peculiare dei principali media italiani. E la sensazione è che ancora una volta Meloni sia riuscita a uscirne indenne, se non personalmente rafforzata. Non si può dire lo stesso per altri esponenti di primo piano del governo, dai ministri in trincea Santanché e Nordio, fino a quelli eccessivamente presenzialisti come Sangiuliano o completamente fuori dai radar come Piantedosi.

La chiusura tutto sommato positiva (o almeno spendibile come tale sul piano comunicativo) della questione terza/quarta rata del Pnrr, la conclusione della vicenda Zaki e l’accantonamento degli interventi sulla giustizia le consentono ora di concentrarsi sulla partita del salario minimo, vera matassa da sbrogliare anche considerando la compattezza dell’opposizione (Italia Viva esclusa). Una partita certamente complessa, nella quale la Presidente del Consiglio è intenzionata a esporsi in prima persona, caldeggiando una formula di compromesso che le consenta di portare subito a casa il risultato minimo (il rinvio) a al contempo le garantisca margini di manovra per intestarsi il merito di un eventuale accordo in autunno. Sullo sfondo, sempre la questione migranti, intorno alla quale però Meloni è riuscita a costruire un cuscinetto protettivo, presentando le discutibilissime interlocuzioni con la Tunisia come "lavoro comune e concordato" con le autorità europee e oscurando i fallimenti di Chigi e del Viminale.

Di tempo per rifiatare, però, ce n’è davvero poco. Queste ultime settimane hanno evidenziato ulteriormente la diversità di obiettivi tra le diverse anime della maggioranza, oltre che la debolezza intrinseca di alcune scelte chiave effettuate a inizio legislatura su ministeri e commissioni parlamentari. Al punto che la parola rimpasto ha preso a circolare con grande insistenza tra i corridoi di palazzo e nelle cronache parlamentari. Timidi segnali, al momento niente di concreto, ma indicativi della volontà di pensare a un’exit strategy per le situazioni più delicate: Santanché, Nordio, ma anche Abodi e la stessa Calderone (non a caso ministri in forte calo negli indici di gradimento). C'è, in effetti, un certo malcontento tra i fedelissimi della presidente, consapevoli di tirare la carretta praticamente da soli e consci del fatto che sui dossier più caldi (tasse, lavoro, inflazione e di nuovo immigrazione) potrebbe non bastare.

I sondaggi continuano a essere rassicuranti, con il centrodestra intorno al 46% e Fratelli d’Italia sempre intorno al 30%, ma sta per cominciare la lunga e complessa partita delle elezioni Europee. E Meloni non potrà ignorare a lungo che i suoi due vice stanno giocando da soli, seguendo piani strategici che spesso si intrecciano con i suoi.

Salvini è da tempo impegnato in una radicale operazione di rebranding personale e politico. Ha scelto di presentarsi come “il ministro del fare” e si sta tenendo lontano dai casi più controversi con un’attenzione maniacale alla propria comunicazione personale. La strategia è chiara: assistere al lento logoramento dell’immagine pubblica di Meloni, lasciandole l’onere di mettere pezze ovunque e comunque, per presentarsi come l’uomo della concretezza, quello che “porta a casa i risultati”, in modo da diventare il punto di riferimento degli ambienti produttivi e delle controparti istituzionali sui territori. Operazione non semplice, che irrita Fdi ma che è già servita a mettere a tacere la fronda interna alla Lega, proprio quando sembrava che il "Capitano" stesse per perderne il controllo.

Tajani è invece impegnato in una vera e propria battaglia per la sopravvivenza, non meno pericolosa per Meloni, considerando le ripercussioni che potrebbe avere sugli equilibri di governo. Non è un caso che si sia mobilitata la cavalleria per sminuire e rintuzzare il primo scricchiolìo dei rapporti con Marina Berlusconi, che resta punto di riferimento dei forzisti. Solo le prime avvisaglie di quello che avverrà nei prossimi mesi, quando entrerà nel vivo la lunga campagna elettorale per le Europee e si capirà non solo il destino di Forza Italia, ma anche la penetrazione del progetto meloniano nel campo centrista e liberale.

Conoscere la direzione che Meloni intenderà imprimere al proprio percorso politico è effettivamente di grande interesse. Ovvero, scoprire come si muoverà fra chi caldeggia il “laboratorio politico della nuova destra” (nazionalista, identitaria e con caratteri neo-statalisti) e chi la immagina a capo della trasformazione di Fdi in un partito più ambizioso, conservatore sul piano culturale e liberista in economia, in grado di rappresentare ciò che Forza Italia è stata per la vecchia stagione politica. Nel frattempo, c'è un Paese da governare: avere una squadra al suo fianco non è esattamente una cattiva idea.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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