Quello dei promotori dei referendum sulla giustizia non è stato un semplice rovescio, ma un disastro epocale. Persino le più fosche previsioni della vigilia non contemplavano l’ipotesi che al voto si recasse meno di un italiano su cinque, record storico di sempre per una consultazione elettorale. Gli italiani hanno disertato in massa il voto (in parte anche quello amministrativo), confermando le preoccupazioni di chi ritiene che l'astensionismo sia un problema serio della nostra democrazia, ma anche bocciando una volta di più questa modalità di utilizzo dello strumento referendario.
Al netto delle enormi difficoltà in cui hanno lavorato i promotori della consultazione, bisognerà convenire che un conto è non raggiungere il quorum, un altro è portare al voto il 20% degli aventi diritto. Non può bastare analizzare cosa non abbia funzionato nella campagna referendaria, né è utile la ricerca di uno o pochi colpevoli: il flop referendario si inscrive all’interno di una crisi sistemica, mostrando drammaticamente cosa intendiamo quando parliamo di scollamento tra politica e opinione pubblica.
Si è parlato molto di come la copertura mediatica sull’appuntamento del 12 giugno sia stata praticamente inesistente; di quanto i partiti abbiano essenzialmente snobbato la questione, per dolo o colpa; di come l'atteggiamento dei principali leader di partito fosse stato piuttosto ambiguo; di come la complessità dei temi oggetto del voto potesse avere un effetto respingente, malgrado un'indubbia centralità nella vita democratica del Paese; di come la data scelta non fosse la migliore possibile per incentivare la partecipazione; di quanto l'attenzione sia stata catalizzata dalla guerra in Ucraina e dalle sue conseguenze nel breve e medio periodo.
Tutti elementi che hanno pesato in modo indiscutibile, ma che non possono bastare a spiegare le ragioni di un flop epocale. Fallimento che peraltro rende completamente inutile ogni analisi di senso sulla condivisione delle ragioni referendarie (che muovevano dalle storture del sistema giudiziario italiano), oltre che ogni valutazione specifica sui singoli quesiti. La gran parte degli analisti in queste ore insiste sul concetto di disaffezione alla politica, che essenzialmente vuol dire tutto e niente.
Occorre certamente capire perché gli italiani abbiano percepito come marginale un tema fondamentale per il sistema democratico. E i promotori del referendum dovrebbero interrogarsi sulle scelte specifiche, dalla fumosità di alcuni quesiti alla marginalità di altri. Ma al punto in cui siamo oggi, nessuno può asserire con certezza che le cose sarebbero andate molto diversamente se i referendum avessero toccato temi più concreti per la vita delle persone. Certo, quesiti molto tecnici o marginali su temi di cui difficilmente le persone fanno esperienza nella loro esistenza (ancorché di grande rilevanza, lo ripetiamo) non sono il migliore spot per la partecipazione massiccia alle urne. Ma è pur vero che dello scollamento tra cittadini e politica di certo non possiamo accorgercene adesso. Sono anni che gli indici di partecipazione diretta e indiretta calano continuamente: l'astensionismo è sempre più un fattore delle consultazioni elettorali, la fiducia nei confronti dell'operato dei rappresentanti politici è a livelli minimi, le iscrizioni ai partiti crollano, le fasi della politica sono sempre meno scandite da grandi momenti di partecipazione popolare e sempre più da infatuazioni rapide e leggere per questo o quel leader.
Da tempo i cittadini hanno introiettato l'idea che la politica non sia più in grado di incidere sulle loro vite, o almeno di farlo in meglio. Si è fatta strada l'idea che le decisioni, quelle vere, siano sempre prese altrove, che le scelte dirimenti siano sempre eterodirette. Si è rafforzata l'idea che votare non serva a nulla, che le istituzioni non siano riformabili e che i processi democratici siano solo orpelli inutili, privi di peso e senso. Un lento scivolamento che non si è arrestato nemmeno negli ultimi tempi, quando invece le vite degli italiani sono state scandite da scelte che sarebbero dovute essere eminentemente politiche. E che invece non lo sono state né sono state percepite come tali a causa dell'irresponsabile comportamento di leader deboli e di politici interessati unicamente alle piccole operazioni di cabotaggio correntizio o personalistico.
Non solo nessuno è stato in grado di esercitare il potere politico, tanto da far ricorso a tecnici e ammucchiate pur di tirare a campare. Ma nessuno è stato in grado di praticare la politica nella sua essenza, di contrastare sfiducia e insofferenza con scelte orientate e sostenute da riflessioni di ampio respiro. Ci si è limitati a inseguire il consenso, in una spirale continua tra vittimismo e deresponsabilizzazione che ha finito con il coinvolgere anche gli elettori più affezionati. Trovare un senso alla partecipazione personale a una politica fumosa e inconsistente è sempre più complesso: troppe aspettative deluse, troppe occasioni perse. È difficile essere motivati a esprimersi sul numero di firme necessarie perché un magistrato si candidi al Csm, mentre ci viene negata la possibilità di incidere in processi ben più dirimenti o si tradiscono puntualmente le promesse elettorali. E però non si può far finta di niente, perché le questioni sul tavolo sono tante e ben rilevanti.
Se leader e partiti non si assumono l'onere e la responsabilità di scelte politiche essenziali, è corretto aspettarsi che lo facciano gli elettori? È sensato pensare ai referendum come strumento di supplenza dell'incapacità della politica? E se ciò si rivelasse alla fine necessario (perché è necessario sbloccare lo stallo su temi fondamentali, da anni bloccati da veti e sabotaggi), non sarebbe ora di ripensare la struttura stessa del referendum?