Probabilmente nemmeno i suoi più acerrimi nemici avrebbero mai immaginato che, a meno di due mesi dal referendum sulla riforma della Costituzione, il Presidente del Consiglio si trovasse invischiato in una simile situazione. Mentre i sondaggi ribadiscono il vantaggio del fronte del No, i dati economici sono inferiori alle attese e la battaglia per la flessibilità in Europa si annuncia complicatissima, Renzi si trova a dover fare i conti con la durissima presa di posizione della minoranza del suo partito (o meglio, di parte di essa) sulla consultazione del 4 dicembre. Una posizione che è sintetizzabile con una frase: o ci dite subito come cambierà l’Italicum oppure votiamo no al referendum.
A tali premesse si sono aggiunte poi la lapidaria intervista di Bersani, le accuse di Marino, il botta e risposta tra D’Alema e Lotti: insomma, non proprio il clima ideale per trovare una sintesi in Direzione Nazionale. Una situazione di partenza complicatissima, insomma, che ha obbligato Renzi a mettere da parte la voglia di “andare avanti come un treno” e a cercare la mediazione, consapevole che trascinare un partito lacerato e diviso in una campagna elettorale sfiancante e complicata non sia proprio lo spot migliore per il Sì.
Bisognava tendere la mano, piuttosto che dire "ciaone" alla minoranza. E Renzi lo ha fatto, a suo modo, certo. Promettendo modifiche all'Italicum sui tre punti contestati dalla minoranza (ballottaggio, premio maggioranza ed elezioni dei deputati), oltre che sul meccanismo di nomina dei senatori. E garantendo tempi certi per la discussione di tali modifiche "ma" dopo il referendum sulla riforma della Costituzione. Per sintetizzare, la linea di Renzi suonava tipo: se il problema è l'Italicum, io sono pronto a cambiarne i connotati venendo incontro alle vostre richieste, ma dopo il referendum; se il problema sono io, invece, assumetevi la responsabilità delle vostre scelte e delle conseguenze che avranno.
In pratica quello che chiedeva Renzi era un atto di fiducia, un'apertura di credito dalla minoranza del suo partito. Che ha risposto picche, per bocca di Gianni Cuperlo e Roberto Speranza, i quali hanno sostanzialmente fatto capire di non fidarsi e, pur accettando l'idea della Commissione per discutere delle modifiche alla legge elettorale, hanno chiesto risposte immediate e l'elaborazione di una "proposta del PD chiara e definita" prima del referendum. Del resto, nella loro lettura, l'approvazione dell'Italicum rappresenta una macchia nella gestione Renzi, che ha forzato la mano ricorrendo alla fiducia, marginalizzando la minoranza e snobbando i mal di pancia all'interno del suo partito. Cambiare la legge elettorale significherebbe, dunque, dare un segnale di apertura e di rinnovamento del metodo di affrontare le questioni all'interno del partito.
La replica dei renziani, Giachetti e Rosato tra gli altri, si è concentrata su questioni già note e ampiamente dibattute in questi mesi: l'Italicum è cambiato più volte in questi mesi, a un certo punto c'è la necessità di decidere, in un partito si discute ma poi si trova una sintesi, si accettano le decisioni della maggioranza e via discorrendo. Qualcuno, come Fassino, ha provato a mediare, mettendo al primo posto l'unità del partito e la necessità di non mostrarsi divisi alla prova delle urne.
Poi c'è il "non detto", quello che traspare dal nervosismo generale e in generale dai commenti sui social network. E che riguarda il futuro di un partito in cui: secondo gli uni, parte della minoranza "ricatta" la maggioranza barattando il sostegno al referendum sulla Costituzione con una concessione sulla legge elettorale, e sfrutta la consultazione referendaria per regolare i conti all'interno del partito; secondo gli altri, la maggioranza, dopo aver spaccato il partito e gestito con arroganza le fasi successive all'elezione di Mattarella, finge di aprire al dialogo interno ma pensa già a isolare il dissenso in vista del prossimo congresso. Un partito che, certo, discute in streaming e mostra senza censure le divisioni e le distanze della sua classe dirigente, ma che sembra avvitarsi in questioni di metodo e polemiche del tutto autoreferenziali.
Più si avvicina la data del referendum e più il Pd appare il partito del muro contro muro, in cui dirigenti e fandom si accusano e si insultano quotidianamente. Quello in cui la leadership viene costantemente messa in discussione e, di pari passo, i dissidenti vengono sempre delegittimati, anche sul piano personale. Quello in cui si utilizza il banco di prova più importante, il voto dei cittadini, come un mezzo per piccole vendette personali, regolamenti di conti interni, tattiche congressuali e manovre correntizie. Uno spettacolo straniante per militanti ed elettori, costretti a convivere perennemente con lo spettro di una scissione che lacererebbe in maniera irreversibile il centrosinistra e la socialdemocrazia italiana. E costretti a subirsi il surreale dibattito sul "chi abbia distrutto il partito", se la minoranza che dice sempre no o i renziani arroganti e presuntuosi.
Cuperlo aveva chiuso il suo intervento spiegando che se anche Renzi vincesse il referendum, con il no della minoranza, si troverebbe a camminare sulle macerie. Ecco, la sensazione è che sulle macerie di ciò che è stato il Pd stiano camminando un po' tutti e ancora non se ne siano resi conto.