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Opinioni

Il problema del reddito di cittadinanza, casomai, è che non è abbastanza

Tra falsificazioni vittimiste e proposte per l’abolizione del sussidio, Meloni, Renzi e Salvini si ritrovano dalla stessa parte, confondendo lavoro e sfruttamento e criticando il RdC per le ragioni sbagliate.
A cura di Roberta Covelli
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Il reddito di cittadinanza è tornato agli onori della cronaca, tra interviste a imprenditori che si lamentano di non trovare personale ed esponenti politici di diversi partiti che si scagliano contro la misura. Nell’ultimo mese le prese di posizione non sono mancate: da Al Bano a Briatore, da Karina Cascella a Leopoldo Mastelloni, diversi personaggi dello spettacolo prestati all’imprenditoria alludono agli effetti negativi del sussidio sull’economia, mentre dallo scenario politico sono principalmente Meloni, Renzi e Salvini a proporre l’abolizione del reddito di cittadinanza. La misura varata nel 2019 è tutt’altro che perfetta, ma le contestazioni citate sono uno schiaffo alla dignità e alla logica. Vediamo perché, partendo dalle critiche, argomentate, che si possono avanzare al reddito di cittadinanza.

Il reddito di cittadinanza tra dichiarazioni di intenti ed errori di calcolo

Il reddito di cittadinanza, istituito con il decreto legge 4 del 2019, è definito dalla stessa norma come "misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all'esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all'inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro". Al netto delle dichiarazioni d’intenti, si tratta di un’erogazione rivolta a nuclei familiari con situazioni reddituali e patrimoniali di vulnerabilità, ossia famiglie che abbiano un ISEE inferiore a 9.360 euro e valori dei patrimoni immobiliare e mobiliare rispettivamente inferiori a 30.000 e 6.000 euro (ma quest’ultima soglia può essere innalzata in relazione al numero dei componenti della famiglia).

Nella pratica, fruire del reddito di cittadinanza significa ricevere una carta prepagata su cui ogni mese viene caricato del denaro, calcolato sulla base della situazione reddituale e della composizione del nucleo familiare. La media della somma erogata ciascun mese ai percettori è di circa cinquecento euro.

Non sono mancati peraltro errori di calcolo, sia nel testo della legge (come nel caso del beneficio aggiuntivo per l’affitto), sia nell’applicazione da parte dell’Inps o nelle mancate integrazioni di documenti da parte degli aventi diritto, con conguagli e decurtazioni rispetto ad altri trattamenti assistenziali.

Scelte arbitrarie a rischio discriminazione

Agli errori e ai problemi di erogazione si aggiungono le scelte sugli aventi diritto al beneficio: certo, ogni regolazione comprende una certa dose di arbitrarietà e, potenzialmente, di ingiustizia, e il D.L. 4/2019 non è da meno. Per il calcolo del sussidio, ad esempio, si opera una moltiplicazione con un coefficiente, la cosiddetta scala di equivalenza, "pari ad 1 per il primo componente del nucleo familiare", che si incrementa di 0,4 per ogni ulteriore maggiorenne e di 0,2 per ogni minorenne, "fino ad un massimo di 2,1, ovvero fino ad un massimo di 2,2 nel caso in cui nel nucleo familiare siano presenti componenti in condizione di disabilità grave". Vengono quindi penalizzate le famiglie numerose, oltre a situazioni di maggior vulnerabilità: un genitore che cresca da solo tre figli minori, ad esempio, riceve un sussidio più basso rispetto alla somma che spetta a una coppia di adulti con due bambini.

Per altri requisiti, le scelte discrezionali finiscono perfino per essere discriminanti. È il caso della prescrizione, come condizione di accesso al beneficio, della cittadinanza italiana o del possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo, cui si somma il requisito di residenza sul territorio nazionale per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi, così escludendo moltissimi stranieri residenti in Italia, pur in situazione di bisogno. Lo stesso Comitato scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza ha segnalato che la previsione di un simile requisito "produce una discriminazione nei confronti dei cittadini stranieri, limitandone fortemente la possibilità di accedere alla misura" e violando peraltro "le direttive europee in materia di accesso alle prestazioni assistenziali, poste a tutela anche degli italiani all’estero".

A questa scelta si aggiunge l’esclusione dalla fruizione del reddito di cittadinanza di chi sia stato destinatario di condanne in via definitiva (ma il beneficio è sospeso pure in caso di misure cautelari, quindi contro presunti non colpevoli) per diversi reati, che comprendono mafia, terrorismo e sfruttamento della prostituzione, ma anche reati di scippo e ricettazione. Al netto delle riflessioni sulle differenze di offensività nel catalogo dei reati, resta la scelta di privare del sussidio una fetta di popolazione che ha subìto condanne che, almeno secondo la Costituzione, dovrebbero tendere alla rieducazione, e che invece finiscono per essere il pretesto di una perenne stigmatizzazione sociale ed economica, con il rischio che la situazione di bisogno costituisca serbatoio di manovalanza per la criminalità.

L’abolizione della povertà, insomma, finisce per riguardare solo gli italiani con la fedina penale pulita e con un nucleo familiare ridotto e tradizionale: gli altri s’arrangiassero.

I problemi pratici delle politiche attive per il lavoro

Oltre che di contrasto della povertà, l’ulteriore obbiettivo del reddito di cittadinanza sarebbe dovuto essere l’inserimento (o il reinserimento) lavorativo dei percettori del sussidio. Così, si prevede che, per accedere al beneficio, sia obbligatorio che tutti i componenti maggiorenni del nucleo familiare presentino la DID, ossia la dichiarazione di immediata disponibilità a lavorare. La legge di bilancio 2022 ha ulteriormente precisato come la dichiarazione di immediata disponibilità sia resa, in nome proprio e dei componenti maggiorenni del nucleo familiare, contestualmente alla domanda di reddito di cittadinanza, a pena di improcedibilità.

Nella pratica, però, un obbligo di questo tipo ignora l’assenza o la scarsità di prestazioni di tipo sociale: ad esempio, in una famiglia con ISEE minimo, con bambini piccoli, entrambi i genitori (o, più in generale, tutti i maggiorenni) devono presentarsi per il Patto con il centro dell'impiego e accettare una delle offerte proposte, a pena di decadenza dal diritto al sussidio. Ma chi si occupa della cura dei componenti minorenni del nucleo familiare, se tutti i maggiorenni devono accettare "offerte di lavoro congrue" (ossia "entro 100 chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile in cento minuti con i mezzi di trasporto pubblici", se si tratta della prima offerta, o perfino "ovunque collocata nel territorio italiano", se si tratti di terza offerta o se il reddito di cittadinanza sia già stato rinnovato)? Le valutazioni su eventuali necessità di cura, e quindi su soluzioni alternative alla piena disponibilità lavorativa, sono rimesse alla discrezionalità degli operatori dei centri per l’impiego, cui sono state fornite delle linee guida solo un anno e mezzo dopo l’istituzione del reddito di cittadinanza, con un apposito accordo in conferenza unificata Stato-Regioni. Le indicazioni per gli eventuali esoneri restano comunque di fatto rimesse alla valutazione degli operatori: l’unica certezza normativa è quindi il venir meno del sussidio in caso di rifiuto di offerte congrue. E, anche rispetto alla "congruità" delle proposte di lavoro, mancano indicazioni chiare e precise.

Il reddito di cittadinanza non è un reddito di cittadinanza

Nel combinare due esigenze, il contrasto alla povertà e lo stimolo all’occupazione, inoltre, la normativa sul reddito di cittadinanza pare aver ignorato il fenomeno del lavoro povero, già attestato prima della pandemia: nel 2018, i dati Eurostat rivelavano infatti come in Italia il 12,2% degli occupati potesse essere considerato un "working poor". In un contesto simile, allora, la congruità delle offerte di lavoro resta un miraggio, oltre che un requisito poco chiaro. A questo deve aggiungersi il fatto, all’apparenza teorico ma profondamente pratico, che il reddito di cittadinanza non è un reddito di cittadinanza. Con questa locuzione, infatti, si definisce reddito di base (basic income), ossia un’erogazione periodica, regolare e incondizionata. La versione italiana del reddito di cittadinanza, nonostante il nome, è invece un sussidio, un’integrazione del reddito (fortemente) condizionata a una serie di requisiti, tra cui la ricerca (e l’accettazione) di occasioni di lavoro.

Insomma, di critiche da avanzare ce ne sarebbero molte: dagli errori di calcolo alle lacune normative, dal divieto di accantonamento di eventuali somme non spese all’imposizione di obblighi senza un adeguato contesto di welfare e supporto sociale alle famiglie, dalla stigmatizzazione dei condannati alla discriminazione dei residenti in Italia da meno di dieci anni. E, più in generale, gli stanziamenti sono pochi rispetto ai bisogni e, nonostante le scelte lessicali e comunicative, non si tratta di un vero reddito di cittadinanza. Eppure, di fronte a queste possibilità di critica, le contestazioni alla misura sono basate su narrazioni classiste, strategie padronali e falsificazioni vittimiste.

Qualcuno non dice la verità sui disoccupati che rifiutano il lavoro

Una delle versioni più diffuse dei lamenti contro il reddito di cittadinanza riguarda il presunto rifiuto di lavorare da parte dei percettori del sussidio. Un racconto del genere, di imprenditori disperati a fronte di disoccupati fannulloni, appare poco plausibile (e molto probabilmente falso).

Come si è visto, non si può accedere al reddito di cittadinanza se non si presenta una dichiarazione di immediata disponibilità per ogni componente maggiorenne del nucleo familiare, sottoscrivendo poi il Patto per il lavoro, ossia un documento individuale con cui ci si impegna ad accettare offerte di lavoro congrue, definite cioè considerando la coerenza tra l’offerta di lavoro e le esperienze e competenze maturate, la distanza del luogo di lavoro dal domicilio e tempi di trasferimento mediante mezzi di trasporto pubblico e la durata della fruizione del beneficio. Se il percettore del sussidio, o, meglio, se uno dei maggiorenni del nucleo familiare percettore del sussidio, rifiuta un'offerta di lavoro, la successiva proposta potrà giungere da una distanza maggiore. E le possibilità di rifiuto non sono infinite: sono al massimo due. Alla terza, che può giungere da qualunque punto del territorio nazionale, si decade dal beneficio.

Se un imprenditore racconta di aver offerto lavoro a chi riceve il reddito di cittadinanza e aver ricevuto rifiuti perché i disoccupati preferirebbero il sussidio al lavoro o racconta una bugia, perché il percettore fannullone finirebbe per perdere il sussidio, o racconta una mezza verità, ben poco onorevole. C'è infatti un'altra versione, invero più plausibile, di questa narrazione, ossia che certi datori di lavoro in cerca di personale non passino dai centri per l'impiego. La procedura sarebbe infatti estremamente semplice: l'imprenditore fa domanda di lavoratori presso gli uffici preposti e si vede proporre disoccupati e percettori di sussidi, i quali peraltro perderebbero il sussidio se rifiutassero la congrua proposta di lavoro. Il punto è che, per chiedere lavoratori al centro per l'impiego, gli imprenditori devono dichiarare quali siano le mansioni, gli orari, i contratti collettivi applicati, la retribuzione offerta. E se, come troppo spesso accade, lo stipendio è al di sotto dei minimi retributivi, se non vengono applicati i contratti collettivi, se non sono garantiti diritti e tutele, se insomma sono violate le norme vigenti, l'imprenditore che non trova personale (perché intende sfruttarlo) si autodenuncia. Nella narrazione, allora, un approfittatore c'è, ma molto probabilmente non è il disoccupato.

Fondata sul lavoro, non sullo sfruttamento

A questa narrazione s'accodano diversi esponenti di destra, dai liberal liberisti renziani, che lanciano la raccolta firme per l'abolizione del reddito di cittadinanza, fino alla destra dalla matrice più definita: sia Salvini sia Meloni, con Lega e Fratelli d'Italia, si sono esibiti in dichiarazioni e proposte contro il reddito di cittadinanza, spesso facendo leva su meccanismi comunicativi che strizzano l'occhio al militarismo (proponendo di destinare i fondi per il sussidio alle spese militari) e con scelte lessicali che richiamano la tossicodipendenza. La convergenza, non certo dell'ultima ora, porta Meloni, Renzi e Salvini sullo stesso lato della barricata, contro una misura imperfetta e criticabile, che tuttavia attaccano adagiandosi sulla posizione dominante, attraverso strategie di stigmatizzazione e contrapposizione, confermando il proprio ruolo nello smantellamento dei diritti sociali.

Non è infatti possibile dimenticare che, sebbene si presenti come nuovo volto, Giorgia Meloni sia stata ministra della gioventù, tra il 2008 e il 2011, in un periodo cioè in cui la gioventù si opponeva, senza ascolto e senza successo, alle riforme di scuola e università, ma anche al Collegato lavoro e ad altri atti di precarizzazione dei diritti dei lavoratori: tutti provvedimenti del governo di cui faceva parte (e di cui era parte integrante anche la Lega in cui Matteo Salvini già militava). Né si può tralasciare il ruolo di Matteo Renzi al governo tra il 2014 e il 2016, quando prometteva la flexsecurity, ribattezzando ammortizzatori sociali preesistenti e smontando le tutele contro i licenziamenti ingiustificati, tanto da portare sia la Corte Costituzionale sia il Comitato europeo dei diritti sociali, negli anni successivi, a dichiarare illegittime diverse parti del suo Jobs act.

Pretendere l'abolizione di un sussidio di contrasto alla povertà, insomma, si pone sul solco delle azioni di governo della destra, con una certa coerenza da parte di Meloni, Renzi e Salvini. Il problema non è però tanto la posizione di questi esponenti politici, quanto l'inquinamento della narrazione, con falsificazioni vittimiste, con un approccio colpevolizzante nei confronti della disoccupazione e con la contrapposizione tra fannulloni approfittatori e "gente che lavora". Si dimentica così che, se è vero che la Repubblica è fondata sul lavoro, è pur vero che quel lavoro delineato dalla Carta costituzionale non è una qualunque occupazione in favore di un'azienda, ma è un'attività dignitosa (dunque con una retribuzione proporzionata e sufficiente, con il diritto al riposo, con pari opportunità), un diritto, uno strumento di emancipazione individuale e collettiva che nulla ha a che fare con lo sfruttamento e con la stigmatizzazione del bisogno.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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