La conferenza stampa di fine anno, atto finale della sua permanenza a Palazzo Chigi, è stata la dimostrazione più chiara di ciò che ha rappresentato Gentiloni in questi mesi. Zero domande scomode, zero pressioni, zero "rimproveri", solo domande di scenario e ipotesi indecifrabili. Serviva una persona in grado di gestire la lunga transizione verso le urne, senza fare troppo rumore. Ovvero, detto in altri termini, serviva un politico serio e realista, che si preoccupasse di traghettare il paese alle urne, non di costruire le basi del proprio futuro da leader politico. A Gentiloni, in tal senso, non si può rimproverare nulla.
Non è un caso che sia i sondaggi che i giudizi di politici e giornalisti concordino nel sottolineare la credibilità e l'affidabilità dell'ormai ex Presidente del Consiglio. In tempi di tifo da stadio, slogan, frecciatine e battute, la pacatezza e la serietà sono di per se stesse un valore, o almeno un tratto distintivo. La capacità di non esercitare la leadership in modo arrogante ed esclusivo, ma legandola al merito dei provvedimenti e dell'azione di governo (nel bene e nel male), è ciò che meglio descrive la "tendenza Gentiloni", che non a caso ha suggerito al PD il claim della prossima campagna elettorale, "la forza tranquilla" (certo, preso in prestito da Mitterand). Le scelte comunicative di Gentiloni, inclusa quella di non rilasciare interviste, hanno fatto il resto, contribuendo a isolarlo dal caos in cui è precipitato il dibattito politico in questi ultimi mesi. Non è un caso che Gentiloni sia il solo nome che il centrosinistra possa mettere sul tavolo nel caso di un eventuale governo delle larghe intese.
Certo, ci sarebbe il merito delle scelte operate in questi mesi a Palazzo Chigi. Gentiloni si è mosso in sostanziale continuità con l'esecutivo precedente, avallando il progetto renziano su lavoro, scuola e sanità, mentre è toccato a Padoan resistere alle tirate per la giacca che pure sono arrivate. Del resto, la squadra di Governo è stata praticamente la stessa, se si eccettua qualche spostamento tattico e qualche sostituzione obbligata. Negli ultimi dodici mesi il Parlamento ha visto sempre più ridotto il proprio spazio di manovra, fra una fiducia e l'altra, senza che mutassero le dinamiche tra i gruppi o che il clima di Palazzo Madama e Montecitorio traesse beneficio dalla serendipity dell'inquilino di Palazzo Chigi.
Ci sono questioni su cui però, il non averci messo la faccia è una colpa. O almeno una precisa responsabilità politica. È un segno di debolezza o una scelta strategica la libertà di cui ha goduto Minniti (l'Interno è stato l'unico dicastero ad aver cambiato passo in questi ultimi dodici mesi, fino a scavalcare continuamente Alfano nella gestione dell'emergenza immigrazione)? È rassegnazione o volontà politica (di terzi) il non essere riuscito a imporre la fiducia sullo ius soli? È miopia politica o cambio di paradigma volontario il via libera senza fiatare ai decreti Minniti e Minniti – Orlando, che rappresentano lo strappo più rilevante con la storia della sinistra italiana? È irrilevanza o colpo chirurgico il fallimento delle modifiche "palliative" al Jobs Act proprio in chiusura di legislatura? È soggezione o convinzione la difesa senza se e senza ma di Maria Elena Boschi? È un limite o una risorsa il "realismo prudente" con cui si sono affrontate le vere questioni, dalle pensioni alle tasse?
Ecco, il problema con Gentiloni è che non si è mai certi di quale sia la risposta giusta. E la sua forza tranquilla, probabilmente, sta anche in questo.