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Il primo governo Prodi vent’anni dopo

Sono passati venti anni ma sembra un secolo. Il 17 maggio 1996, Romano Prodi giura nelle mani di Oscar Luigi Scalfaro dando corso al cinquantatreesimo governo della Repubblica italiana.
A cura di Marcello Ravveduto
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Foto LaPresse - Stefano Costantino
Foto LaPresse – Stefano Costantino

Sono passati venti anni ma sembra un secolo. Il 17 maggio 1996 Romano Prodi giura nelle mani di Oscar Luigi Scalfaro dando corso al cinquantatreesimo governo della Repubblica italiana.

Per la prima volta gli ex comunisti sono il perno dell’esecutivo con 10 ministri e 16 sottosegretari. Gli uomini forti sono il Vicepresidente Walter Veltroni, ministro dei Beni Culturali, e Giorgio Napolitano, ministro dell’Interno (la prima volta di un ex comunista al dicastero anticomunista per eccellenza).

Il viatico, come al solito, arriva dagli Usa: il Presidente Bill Clinton il 2 aprile, durante una visita di Scalfaro a Washington dichiara: «Non ci spaventa una vittoria della sinistra in Italia».

Spicca tra i componenti del governo l’indipendente Carlo Azeglio Ciampi al super dicastero dell’Economia e del Tesoro: l’ex governatore della Banca d’Italia, nel turbinio della crisi, si è sobbarcato l’onere di evitare la bancarotta nazionale guidando un governo di transizione (1993/1994).

Indipendenti sono anche Giovanni Maria Flick, ministro di Grazia e Giustizia e Antonio Di Pietro, nominato ministro dei Lavori Pubblici e delle aree urbane. Il giudice di mani pulite, dopo aver dichiarato più volte che non sarebbe mai entrato in politica, accetta l’offerta di Prodi provocando il primo dissenso di Bertinotti, segretario del Prc. Di Pietro si dimetterà dall’incarico il 20 novembre dello stesso anno.

La maggioranza parlamentare si regge sui voti di Rifondazione comunista che ha ottenuto un buon numero di seggi (35 alla Camera e 10 al Senato) grazie alla desistenza dell’Ulivo in alcuni collegi uninominali. Anche la piccola pattuglia di Rinnovamento Italiano, condotta da Lamberto Dini (che da destra è passato a sinistra), entra nella partita aggiudicandosi il ministero degli Affari esteri.

L’Ulivo per molti rappresenta un sogno. Così lo sintetizza Walter Veltroni: «L'Ulivo ha già acquisito due pilastri fondamentali della propria identità. Il primo è avere un programma comune, dato di non poco rilievo. Il secondo è avere un'opzione politica comune, cioè la volontà di stare assieme in un'alleanza. Il terzo pilastro deve essere, appunto, esprimere valori comuni. Questo è un fattore decisivo per dare all'Ulivo solidità strutturale e compiutezza politica… Il vecchio partito chiuso attorno a una visione ideologica del mondo e della società è ormai morto e non rinascerà più».

E continuando: «L'Ulivo è sicuramente molto più di un cartello elettorale. È da tempo un'alleanza e un programma comune, ora è anche un'esperienza di governo. Ed è in crescita, ci dicono i sondaggi, nel consenso dell'opinione pubblica. Ciò dimostra che a differenza di quanto accade in altri Paesi la grande sfida dell'Europa – che è il perno, come ha più volta detto Romano Prodi, della nostra azione – viene accolta come una sfida positiva… Oggi le diverse identità di partito di cui si compone la coalizione sono un fattore espansivo dell'Ulivo. Eppure già adesso sento che spesso le divisioni che rimangono tra noi vengono dal passato, non nascono dal presente, probabilmente non avranno più senso nel futuro… La verità è che si sta costruendo il campo del centrosinistra. Non più solo cartello elettorale, ma progetto politico, culturale e ideale comune».

Per questo l’ex sindaco di Roma sarà indicato come primo segretario del Partito democratico che per molti è l’incarnazione partitica del progetto ulivista. Lo scorso aprile, ricordando la vittoria della coalizione, Arturo Parisi ha infatti dichiarato che di quella stagione «resta il mandato a portare a compimento il progetto di rinnovamento della società e di riforma delle istituzioni». Un'eredità raccolta, secondo il professore, dal Pd e da Matteo Renzi che, nel bene e nel male, è «figlio dell'Ulivo» anche perché «Senza l'Ulivo il suo percorso non sarebbe stato pensabile».

La coalizione ha avuto dunque il suo ruolo nella storia perché è l’origine nobile del Partito democratico. Un eccesso di presentificazione, a mio avviso, che appiattisce sul quotidiano la profondità di un pensiero programmatico risalente agli anni del miracolo economico.

Furono i politologi della rivista «Il Mulino» a credere, in seguito all’alleanza programmatica tra democristiani e socialisti, alla possibilità di dare vita ad un centro-sinistra inteso come una cultura nazionale, rappresentativa delle forze reali del paese, capace di avverare uno Stato e una società realmente democratici.

È in quella fucina che si forgia la categoria dei «democratici» quali rappresentanti di un movimento progressista e neocapitalista che individua nell’istruzione e nella ricerca scientifica i pilastri della sfida alla modernità, ovvero quella che Kennedy chiama la Nuova frontiera.

All’epoca gli intellettuali de «Il Mulino» vedevano nella Democrazia cristiana il partito guida che, attraverso un saldo collegamento con la società civile, avrebbe potuto incanalare gli interessi dei cittadini nella giusta direzione. Insomma quello che oggi aspira ad essere il Partito democratico in quanto partito della nazione.

L’alleanza programmatica, però, ben presto si sgretola. D’Alema è impaziente di risultati e grandi riforme con nuove e più vaste maggioranze, Bertinotti vuole capitalizzare la posizione di minoranza (martellando sulle 35 ore di lavoro), Prodi, nonostante l’approdo europeo, il decentramento amministrativo, le misure fiscali, i patti territoriali, l’attenzione alle politiche sociali e la promessa di una seconda fase meno ragionieristica e più politica rimane, il 21 ottobre 1998, con il cerino in mano.

La morte in fasce dell’Ulivo agevola la formazione del mito degli sconfitti e di tanto in tanto tornano i protagonisti a farsi intervistare per lamentare come sarebbe stata bella l’Italia se «le antiche divisioni» non avessero preso il sopravvento.

Eccoli lì i nostalgici che guardano con speranza al Matteo nazionale. Mirano alla vittoria e alle riforme ma può capitare che lo scoramento, di fronte al divenire di Partito democratico, prenda il sopravvento. E allora, quando le cose si mettono male, riascoltano a tutto volume “La Canzone Popolare” di Fossati per ritrovare un’eco di quella speranza, almeno fino al prossimo selfie.

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